Quale è il primo problema d’Italia?

Ci è capitata sotto gli occhi la iniziativa di un Webinar che propone un tema accattivante: L’importanza dell’anti totalitarismo. “Ecco ci risiamo”, potrebbe commentare qualcuno; “sempre la solita storia del contrasto destra-sinistra”, del fascismo-antifascismo, che sa di vecchiume stantio e ammuffito e che non si riesce a eliminare. Commento comprensibile perché, quelli, i politici, non “fanno politica” ma “fanno litigi”, a prescindere e sul nulla, mentre il Paese va alla deriva contro le scogliere e mentre l’astensionismo, in attesa che qualcuno “faccia politica”, rasenta la maggiorana assoluta. Ma qui la questione è diversa: non c’è dubbio che l’antitotalitarismo sia cosa ben diversa dall’antifascismo. Quest’ultimo, l’antifascismo, è diventato così abusato che, se qualcuno esprime qualcosa che non ci aggrada, subito diventa “fascista”, da punire, da isolare, da discriminare. E, allora, nasce la guerra civile: da un lato i fascisti, dall’altro i partigiani. L’antifascismo crea barriere perché sottintende un insulto. Siamo al livello inconsapevole della più bieca discriminazione: dire “fascista” a uno, è come dire “negro”; ma, qui, vale il politically correct nel primo caso, no. Che strana gente siamo!

Con l’antitotalitarismo, invece, siamo tutti dalla stessa parte: siamo tutti contro la dittatura, contro la prevaricazione, contro l’oppressione. Tutti? E come mai esprimiamo un inconfessabile “culto della personalità” (germe della dittatura) sia in positivo, con l’esaltazione, sia in negativo, con il disprezzo? Basti osservare che tutti i partiti politici sono “attaccati” a qualche personaggio che esaltiamo, a prescindere; o disprezziamo, a prescindere. Finito il personaggio, finito il partito. Ma torniamo all’antitotalitarismo parlando del totalitarismo. Il totalitarismo, lessicalmente, si distingue dalla dittatura nel senso che esso è più “espanso”; cioè, nel totalitarismo, il regime permea ogni ambito della vita sociale. Ma, i due vocaboli sono colloquialmente contigui; qui, li consideriamo sinonimi. Il totalitarismo si è evoluto nel tempo, soprattutto negli ultimi secoli: dallo Ius Primae Noctis e dal diritto di vita e di morte del feudatario dei secoli bui, attraverso i “ministeri della propaganda” del secolo scorso, si è giunti al sofisticato “marketing subliminale” dei tempi attuali. Anche lo strumento usato è cambiato, si è evoluto: dalla forza fisica oppressiva alla psicologia di massa.

La differenza è abissale perché, prima o poi, il popolo reagisce alla forza fisica oppressiva; lo stesso popolo, però, non riesce a reagire a un condizionamento psicologico perché esso annulla il “pensiero critico” e mortifica la consapevolezza del totalitarismo in atto: il “marketing subliminale” ti mette a tuo agio cogliendo il tuo ventre molle. Riconoscere, oggi, il totalitarismo non è semplice perché è sofisticato e professionale. Ad esempio, oggi, la maggioranza è convinta che esista un “diritto della comunità” che debba, perché comunitario, essere prevalente rispetto al “diritto della persona”. Eppure, basta accendere il “pensiero critico” per rendersi conto che il diritto della persona discende dallo Ius naturalis che alberga nel Dna dell’uomo. Quello della comunità, invece, dove alberga? Chi lo decide quale debba essere? Ecco la dittatura di chi gestisce il “marketing subliminale”; dittatura che è “espansa” e che sfocia nel totalitarismo.

Allora la semplice domanda: la nostra società è libera o assoggettata a totalitarismo? E di chi? Pensiamoci un po’. Dei politici? Macché! Quelli non riescono, mediamente, a scrivere una norma; inoltre, passano e, se volessimo, li potremmo escludere dalla nostra vita ignorandoli, spegnendo la tivù, non leggendo i giornali, praticando astensionismo. Quello che rimane, invece, è la burocrazia che s’inventa norme demenziali, è inamovibile, non licenziabile, intoccabile, non perseguibile perché ha lo scudo della norma. Quante volte avremmo voluto guardare in viso chi, da dietro una scrivania, a stipendio fisso, produce “intelligenti norme di vita” adatte solo a creare problemi e difficoltà e costi. Con la crisi della società civile e della economia delle comunità, la burocrazia pasce e si sviluppa come un cancro, e come un cancro risponde alla “norma della metastasi”, diffondendosi. Se si sgarra, anche di poco, parte la sanzione, pesante.

Poi, tutto è quiete. L’entropia assume il proprio ruolo indiscusso e prevalente. Prendiamo un esempio dei danni prodotti dalla burocrazia, fra gli innumerevoli che abbiamo a disposizione e il più lontano possibile dalla quotidianità: le grandi opere, quelle che dovrebbero favorire la crescita e lo sviluppo del Paese. Ebbene, le grandi opere “incompiute” sono costate ben 1,82 miliardi di euro: una enormità. Questo rappresenta solo il costo vivo senza conteggiare, cioè, il danno rinveniente da un profitto non realizzato, il costo relativo allo sforzo della Pubblica amministrazione, il costo relativo all’impegno delle istituzioni, il costo dei politici interessati, il costo sostenuto dalle imprese al di là della commessa, il costo del frenetico “moto browniano” di tanti interessati a inserirsi. Quando andiamo a guardare, nel dettaglio, il costo sopportato di 1,82 miliardi di euro, pagato dal contribuente, verifichiamo che la classifica delle regioni che accusano grandi opere incompiute sono, nell’ordine, Sicilia, Sardegna, Puglia, Lazio; le migliori città sono Trento e Bolzano. C’era da aspettarselo, per la gioia del grande Nord! Ma poi, verifichiamo che, su 1,82 miliardi di euro di opere incompiute, al sud compete un 50,8 per cento, pari a 925 miliardi di euro. È una sorpresa! Sud e Nord sono pari per quanto riguarda le grandi opere incompiute. Ciò significa che non è il timbro territoriale la causa delle opere incompiute ma qualcosa d’altro, di diffuso a livello nazionale.

Lo studio della Silvi costruzioni edili descrive le cause di inefficienza e spreco nel settore degli investimenti per le grandi opere: in primis, la burocrazia con le sue lungaggini burocratiche che rallentano tutti i processi decisionali e quelli della realizzazione. Poi, a seguire, l’incapacità burocratica di pianificazione e programmazione; la scarsa trasparenza burocratica nella gestione dei fondi pubblici; l’influenza sulla burocrazia di interessi di ogni tipo provenienti da ogni dove; per citarne solo alcuni. Non sono forse le stesse cause per cui l’Italia ha dovuto restituire all’Unione europea tanti, ma tanti, miliardi di euro sui fondi “normali” europei? Ci si domanda se anche quelli del Pnrr faranno la stessa fine. La percezione dell’opinione pubblica sulla qualità, competenza, efficacia ed efficienza della burocrazia, che è facilissimo accomunare alla politica, non può che essere sgradevole e sfiduciata. I risultati li abbiamo sotto gli occhi, benché appannati. Abbiamo fatto un esempio sulle “opere incompiute” per significare il totalitarismo della burocrazia. Ma le norme burocratiche generate dal sistema incidono sulla qualità della vita quotidiana in tutti i settori: dal fisco alla sanità; dall’istruzione all’economia; dalla finanza alla ricchezza immobiliare e al risparmio; dalla giustizia ai trasporti; dal lavoro all’immigrazione. Sembra che diventi obbligatorio imparare a costruire la consapevolezza di dove stia realmente il problema e quale debba essere la priorità della Politica.

(*) Presidente “Sistema Paese” – Economia Reale & Società Civile

Aggiornato il 21 marzo 2023 alle ore 13:51