75 anni ben portati: una Costituzione sempre giovane

La Costituzione della Repubblica, della cui nascita ricorre il 75° anniversario, fu approvata a larghissima maggioranza dall’Assemblea costituente (453 voti su 515), con una proporzione impensabile per i tempi attuali, caratterizzati da una conflittualità tra delle forze politiche che non serbano, nei rispettivi programmi, quelle nette differenziazioni ideologiche che – viceversa – segnarono le tre grandi aree culturali prevalenti agli albori della Repubblica (cattolica, liberale e marxista). A tali aree oggettivamente identificate, dopo la caduta per via giudiziaria della cosiddetta Prima Repubblica, si sono sostituite delle aggregazioni fondate più sul carisma del leader di turno, che su delle piattaforme ideologicamente ben definite. La nostra Carta fondamentale fu firmata il 27 dicembre 1947, nella stanza di un capo dello Stato (Enrico De Nicola) attentissimo alle ritualità del cerimoniale, che doveva avere una dignità formale adeguata allo spessore contenutistico dello storico evento. Dopo numerosi dibattiti pro e contro il decentramento, prevalse la tesi di uno Stato fondato sulle autonomie, in contrapposizione al modello centralizzato scolpito nello Statuto Albertino. Il Comune fu considerato la cellula primaria dell’articolazione decentrata, il principale centro erogatore di beni e servizi; mentre alla Regione furono ascritte preminenti funzioni di legislazione, nonché di promozione e di propulsione della potenziale domanda di servizi da parte della collettività ad essa appartenente.

Per l’Italia iniziava un nuovo periodo storico di decisiva importanza per l’opera di ricostruzione, cui avrebbero dovuto concorrere, con spirito di responsabilità e di abnegazione, tutte le energie vive della nazione. Era una nazione nella quale la contrapposizione tra monarchici e repubblicani – risolta senza l’epilogo di una guerra civile o della spaccatura territoriale del Paese (Nord repubblicano e Sud monarchico), grazie a due galantuomini della statura di Umberto II e di Alcide De Gasperi – aveva trovato un ulteriore momento di sintesi ideale con la nomina a capo dello Stato di Enrico De Nicola, che non aveva mai nascosto la sua fede monarchica. Si ripropose nella nuova forma di governo la questione dei rapporti tra Chiesa e Stato, con la necessità di ribadire la laicità di quest’ultimo e di riconoscere, al contempo, l’intrinseca sovranità posseduta dalla Chiesa, nella più ampia cornice di un regime di libertà per tutte le religioni. L’esperienza bellica tragicamente vissuta, indirizzò il legislatore costituente a ripudiare in linea di principio il ricorso alla guerra per dirimere le controversie internazionali o per limitare la libertà di altri popoli in base all’articolo 11, giusta il quale con avveniristica preveggenza, fu altresì sancita la limitazione della nostra sovranità in favore di organismi sovranazionali per la realizzazione della pace e della giustizia tra le genti: furono i presupposti etico-giuridici dell’Unione europea.

La giustificazione ultima della Costituzione, al pari di tutte quelle adottate in regime di libertà, va ricercata al di fuori di essa e consiste:

1) nella ragionevolezza delle sue prescrizioni;

2) nell’organizzare le strutture pubbliche espressive dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, con la supremazia del primo, in quanto solo attraverso di esso il popolo esercita rappresentativamente la sua sovranità;

3) nell’esprimere i valori essenziali in cui consente la maggioranza dei cittadini e nel “riconoscere”, al contempo, i diritti pre-statuali quale guarentigia ineludibile per le minoranze.

Nel momento in cui cambia il comune sentire, si impone al legislatore costituzionale di intervenire per modificare, aggiornare o abrogare il testo in tutto o in parte, affinché la norma scritta non risulti un’iniqua imposizione di precetti astratti, a fronte dell’evoluzione concreta di ciò che è percepito come diritto vivente. Vero è, peraltro, che nel corso del tempo è molto più facile che si verifichino dei cambiamenti strutturali negli organi espressivi dei tre poteri tradizionali, che non delle riforme ascrivibili ad un mutamento del predetto sentire, il quale – a sua volta – deve trovare un punto di incontro con quello degli altri popoli sul terreno della razionalità di principi universalmente condivisibili. Ciò spiega che è la continuità degli ideali a garantire l’identità di una nazione ed il senso dello Stato, per cui l’identità stessa può mantenersi anche in presenza di un collasso dei poteri pubblici, come avvenne nel nostro Paese dopo l’8 settembre 1943, quando ci furono migliaia di cittadini che persero la vita combattendo per la Patria, concetto trascendente ogni forma di governo pro tempore. La nostra Costituzione vide dunque la luce a più di un anno di distanza dalla proclamazione della Repubblica (2 giugno 1946), e risultò il frutto di un equilibrio soffertamente raggiunto tra forze politiche espressive di matrici ideologiche assai diverse, come già ricordato.

Il testo che ne derivò fu vagliato da tre illustri letterati come Antonio Baldini, Concetto Marchesi e Pietro Pancrazi, prima della sua stesura definitiva, pur essendo stato preparato da giuristi insigni che possedevano, oltre alla tecnica normativa, l’eleganza di un’espressione finalizzata al massimo nitore. Rispetto al precedente regime monarchico, lo Stato assunse un ruolo di ben più incisiva presenza nella società civile, con particolare riguardo alla centralità accordata al diritto al lavoro, alla famiglia, alla tutela della salute, alla promozione della cultura e della ricerca scientifica, alla protezione delle minoranze, al pluralismo ordinamentale. La nuova Costituzione repubblicana, non “elargita” come quella monarchica, ma espressa mediatamente dal popolo, andò oltre gli schemi dello Stato di diritto, proiettandosi nella configurazione dello Stato sociale, che non si limitava cioè a dettare delle regole valide per tutti, ma promuoveva lo sviluppo della personalità di ogni cittadino, rimuovendo gli ostacoli che ne avrebbero impedito, altrimenti, la reale partecipazione alla vita civile, e quindi la realizzazione di una democrazia compiuta e non meramente formale. A differenza dello Statuto Albertino, la Costituzione è di tipo rigido (cioè non modificabile con la normale procedura richiesta per le leggi ordinarie) e si caratterizza per un’armoniosa interrelazione fra i diritti del singolo e l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà. Nel “Preambolo” sono enunciati i principi-cardine concernenti la tutela dei diritti fondamentali, i caratteri della Repubblica, la sua posizione internazionale, i rapporti con la Chiesa e le altre Confessioni. Segue una prima parte sui diritti ed i doveri dei cittadini ed una seconda sull’ordinamento della Repubblica.

Sembra opportuno evidenziare che a fronte della svolta di non poco conto realizzata dalla nuova Carta rispetto allo Statuto ad essa precedente, non vi fu frattura radicale nei riguardi del passato sotto il profilo della cosiddetta “costituzione materiale”, cioè dell’insieme di quei valori (famiglia, fede, patria) in cui continuò a credere ed a consentire la stragrande maggioranza degli italiani. Appare utile altresì sottolineare che fra le norme contenute nella nostra Costituzione, ve ne sono alcune meramente ricognitive di realtà extra e pre-statuali, quali ad esempio la soggettività giuridica della Chiesa cattolica (articolo 7), i diritti inviolabili dell’uomo (articolo 2), il diritto internazionale generalmente riconosciuto (articolo 10), la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio (articolo 29). Quest’ultima è la prima e più importante forma di vita associativa, senza la cui salvaguardia verrebbero minate le fondamenta stesse della società civile. Considerando per sommi capi la Costituzione nella sua globalità, il Titolo I della prima parte (rapporti civili) contempla la libertà nelle varie forme in cui essa può estrinsecarsi (della persona, del domicilio, della corrispondenza, di circolazione, di riunione e di associazione, di religione, di pensiero e di stampa). Seguono alcuni principi consolidati di civiltà giuridica, già peraltro presenti nello Statuto Albertino, quali la riserva di legge in materia penale e tributaria, l’assoggettamento al giudice naturale, nonché altri valori che sono marcatamente caratteristici del nuovo ordinamento.

A tal riguardo, l’intero Titolo II della prima parte (rapporti etico-sociali) prende in considerazione temi non contemplati nel richiamato Statuto, quali la famiglia, la salute, l’arte e la scienza, tutti oggetto di tutela e di promozione da parte della Repubblica. Ancor più innovativo rispetto al passato, è il titolo III della prima parte (rapporti economici), che sviluppa analiticamente il principio fondamentale posto in apertura dalla Costituzione stessa all’articolo 1: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. L’iniziativa economica, al pari della proprietà privata, è garantita nel quadro più ampio dell’utilità sociale cui entrambe sono subordinate; così come sono tutelati il risparmio e la cooperazione, che concorrono sia al benessere individuale che a quello della collettività nel suo insieme. Il Titolo IV, che conclude la prima parte (rapporti politici), è dedicato al diritto di elettorato attivo e passivo, alla difesa della Patria, alla progressività tributaria ed al dovere di fedeltà alla Repubblica.

La seconda parte della Costituzione, nei Titoli dal I al IV, disciplina, tra l’altro, le attribuzioni degli Organi costituzionali (esempio: la Camera dei deputati) e di quelli ausiliari (esempio: il Consiglio di Stato) e regola le funzioni del potere legislativo (funzione sovrana per eccellenza), di quello giudiziario e di quello esecutivo. Il reciproco bilanciamento dei tre poteri fondamentali in parola, si pone come condizione prioritaria per l’affermazione della libertà dei cittadini. Il potere giurisdizionale è affidato ai giudici, soggetti solo alla legge, i quali esercitano la giustizia in nome del popolo. Ai fini del corretto bilanciamento dei poteri, è espressamente sancito (articolo 104) che la Magistratura costituisce ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere.

Il ricordato principio della separazione dei poteri, appare disatteso quando ricorre l’anomala fattispecie del giudice che si fa legislatore, dovendo viceversa limitarsi a dicere jus e non spingersi a condere jus, Del pari, l’evocata separazione da tempo è stata stravolta anche a causa del progressivo esautoramento del Legislativo da parte dell’Esecutivo, che mortifica il Parlamento nella sua prima funzione, che è quella rappresentativa. A tal riguardo, appare opportuno ricordare che i vari Dpcm che si sono susseguiti durante la pandemia del Covid, in quanto meri provvedimenti amministrativi, sono stati addirittura incostituzionali, dato che soltanto degli atti aventi forza di legge avrebbero potuto porre limitazioni a diritti e libertà costituzionalmente garantiti, come quello alla libera circolazione. Contro paventate involuzioni autoritarie derivanti da tracimazioni di maggioranze, esistono dei meccanismi di tutela, come i poteri di controllo assegnati al capo dello Stato, che rappresenta l’unità della nazione ed è garante supremo del rispetto della Costituzione, sulla cui osservanza vigila altresì la più alta magistratura: la Corte costituzionale. Un’ ulteriore garanzia è data dalla procedura “rafforzata” che prevede una maggioranza qualificata per cambiare la massima Carta ed infine i paletti insormontabili dei diritti fondamentali ivi riconosciuti, che dunque – lo ribadiamo – sono ad essa preesistenti e che nessuna sua eventuale riforma potrebbe eliminare. La Corte costituzionale, con le sue sentenze “interpretative”, di fatto coopera con la funzione legislativa, seppure nei limiti del raccordo effettuato fra i singoli precetti e la Costituzione. È oggi un dato acquisito, sotto il profilo storico-giuridico dell’Italia repubblicana – come ha efficacemente affermato Giuliano Amato, in una felice sintesi definitoria – che i poteri del capo dello Stato sono stati legittimamente interpretati “a fisarmonica”, cioè che hanno rivelato una notevole capacità espansiva, in presenza di maggioranze deboli e inefficienti, come di una rilevante instabilità di sistema. Già nel 1957 il Piero Calamandrei definì il presidente come “viva vox Constitutionis”; ma, per converso, non riteniamo inattuale il monito di Vittorio Zincone, che in pari data affermò che la figura del Presidente di una Repubblica parlamentare dovesse risultare più vicina a quella del “confessore, che non del predicatore”. Tornando alla Costituzione scritta, è il Titolo V, concernente gli enti territoriali, che con le riforme apportate dalle leggi costituzionali 22 novembre 1999, n. 1 e 10 ottobre 2001, n. 3, fu oggetto della più vasta ed incisiva modificazione che fosse stata mai realizzata in Italia in merito alla ridistribuzione dei poteri legislativi ed amministrativi. Innanzi tutto la formulazione dell’articolo 114 (“La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province e dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”), chiariva che gli enti territoriali non erano più semplici articolazioni dello Stato, bensì elementi strutturali che con quest’ultimo concorrevano a formare la Repubblica. La “rivoluzione” venne marcata dall’articolo 117 in particolare, che capovolse le proporzioni della precedente titolarità del potere legislativo, passata prevalentemente alle Regioni, fatte salve alcune materie che lo Stato aveva espressamente riservato a sé per ragioni strategiche, politiche ed economiche (quali la difesa, le finanze, le leggi elettorali, l’ordine e la sicurezza pubblica, il diritto penale e civile).

Aggiornato il 08 febbraio 2023 alle ore 12:22