Che il liberalismo sia soprattutto filosofia della libertà come fatto spirituale, come voleva Benedetto Croce, o una dottrina economica che esprime una precisa visione sul ruolo che può concretamente assumere la libertà nello sviluppo dell’uomo e della società, come voleva Luigi Einaudi, è questione assai complessa e mai definitivamente risolta. Sta però di fatto che, oggi, fra i politici di tutte le formazioni si sta diffondendo la percezione dell’importanza che il blasone conferito dall’aggettivo “liberale” può avere presso l’elettorato. Gli esempi abbondano e basta avere occhi per leggere e orecchie per sentire per convincersi di questa palese tendenza. Cosa abbia in mente un politico di destra, di sinistra o di centro quando usa l’aggettivo “liberale” è tuttavia estremamente incerto e presumibilmente lo è ancora di più presso l’elettore.
Sicuramente i riferimenti, ancorché impliciti, non sono a John Locke o Friedrich von Hayek né, probabilmente, ai due autori citati all’inizio e meno che meno a Giovanni Malagodi e alla sua politica di opposizione al centrosinistra e a ciò che questo avrebbe, e ha, prodotto. Da buoni ultimi, a fare uso dell’aggettivo in questione, sono Carlo Calenda e Stefano Bonaccini. Insomma, da un lato l’erede, si fa per dire, dell’azionismo che i liberali hanno sempre detestato e, dall’altro, l’erede regionale di una gloriosa, e anche qui si fa per dire, tradizione socialista e comunista. Proprio Bonaccini in questi giorni ha confermato che il suo intento, se divenisse segretario nazionale del Partito democratico, sarebbe quello di riunire attorno a sé uomini e donne che provengano dal socialismo, dalla gente che si riconosce nella cosiddetta cultura cattolico-democratica e, appunto, dai liberali. Vista superficialmente una simile posizione si potrebbe classificare come l’ennesima prova della scomparsa delle ideologie ma, in realtà, essa nasconde invece, da una parte, una diffusa ignoranza sulla storia delle idee politiche e, dall’altra, la banale ricerca di consenso in tutte le direzioni.
D’altra parte, poiché, anche senza essere uomini di elevato spessore culturale, gli uomini politici hanno generalmente un certo fiuto elettoralistico, l’insistenza sull’aggettivo “liberale” sta a indicare la loro persuasione circa il carattere accattivante di questo aggettivo presso una porzione, probabilmente piuttosto vasta, di elettorato. Un elettorato ampiamente disilluso dalle politiche socialiste e cattoliche di sinistra che hanno dominato la scena per decenni e hanno impedito la modernizzazione del Paese, sia stando al Governo sia stando all’opposizione, promuovendo l’immancabile e perenne soluzione “statale” e fiscale di ogni problema della società italiana, magari contrabbandata come espressione di saggezza pragmatica ignorandone il prezzo, morale ed economico.
Dunque non facciamoci illusioni: il liberalismo che hanno in mente molti politici nostrani non è altro che un’esca elettorale, ossia un nuovo modo di ingannare facendo passare per liberale ciò che liberale non è. L’ideale dovrebbe essere: ognuno il proprio ruolo, i socialdemocratici di qui e i liberali di là, senza inutili e semmai dannose confusioni. Del resto, se si pensasse sinceramente al liberalismo si dovrebbe riconoscere che esso è, prima di tutto, una visione dell’uomo, cioè un sistema di idee, filosofiche ed economiche, che non si possono improvvisare semplicemente facendo uso di un aggettivo. Né si possono in alcun modo coniugare con le visioni socialiste da un lato o con quelle dei “comunistelli di sacrestia, con le lenti spesse e i brufoli sul collo”, come li aveva felicemente battezzati Malagodi.
Aggiornato il 21 gennaio 2023 alle ore 13:09