Per agevole la narrazione appelleremo le parti in commedia come fratellini (FdI), legulei (Lega) e forzisti (Forza Italia), consci che nel nome (come nell’appellativo) grondino tutte le contraddizioni politiche ed antropologiche italiane. Già da qualche mese gli italiani hanno scelto una diversa maggioranza, ed almeno nella forma e nei modi s’aspettavano sorgesse un diverso mattino. Se l’inizio della giornata non c’inganna, purtroppo, l’approccio è lo stesso del precedente esecutivo. Medesimo con un briciolo di saggezza alla Don Abbondio ovvero, come s’orecchia in ambienti romani, “famo i fraticelli, famo i democristiani, stamose boni, non tocchiamo palla, lasciamo che a sbagliare sia l’avversario”. Stessa musica a Napoli e provincia “all’ordine facite ammuina: tutti chilli che stanno a prora vann’a poppa e chilli che stann’a poppa vann’a prora” (non vi risparmiamo il resto dell’adagio). Necessita recitare una parte per la legislatura, per irretire il consenso dell’alta dirigenza di Stato ed essere riconfermati tra cinque anni”. A Bari tutti insieme concordi che col potere devi fare la “facce du càn aqquann fusce”. La musica è la stessa a Milano come a Palermo, Genova e Venezia.
In parole povere, chi ha vinto le elezioni, col minor afflusso alle urne della storia italiana, intende lavorare solo nella direzione di conquistare le simpatie dell’alta dirigenza di Stato. E l’uomo della strada, ed il cittadino disoccupato e vittima di burocrazia, magistratura e fisco? Per quest’ultimo necessita non fare nulla, e per evitare di tirarsi addosso le ire di giornali e Partito democratico, di Commissione Ue e poteri bancari vari. Tutto questo perché i coraggiosi fratellini, i timorosi legulei ed i (solo a parole) forzisti temono si spezzi il dialogo con i funzionari dello Stato d’area Pd. “Stanno lavorando a creare un certo tepore con il Pd, soprattutto con dirigenza di Stato e magistratura, e dopo penseranno agli italiani” chiarisce uno che lavora alla Camera dei deputati. Ecco che i membri di governo e maggioranza prediligono presentazioni di libri, manifestazioni e premi con vertici della magistratura, intellettuali e dirigenti Rai già d’aria Pd (forse anche ex 5 Stelle) piuttosto che farsi beccare in pubblico con chi avversava il passato governo.
Perché fratellini, legulei e forzisti sanno bene che l’acronimo Pd va inteso come Partito dei dirigenti, soprattutto di Stato, ma anche di grandi aziende come banche e multinazionali.
E questo sarebbe un comportamento da democristiani? Evidente che gran parte dei giovani politici non conosca la storia, e certamente non sarà giunto loro l’eco della forza con cui Amintore Fanfani difendeva in ogni sede (anche europea) gli interessi dell’agricoltura italiana, anche a costo di inimicarsi i potenti francesi e nordeuropei dell’epoca. E nemmeno immaginano come i vari Enrico Mattei, Alcide De Gasperi e Aldo Moro combattevano contro i poteri multinazionali occidentali per scongiurare venissero calpestati i patrimoni italiani. Ciliegina sulla torta è che questa maggioranza reputa possa anche tingersi di sinistra inchinandosi ai voleri della magistratura; dimenticando la lezione politica di Palmiro Togliatti che, da ministro di Grazia e Giustizia, elaborava nel 1946 l’amnistia e l’indulto per reati politici, militari e comuni, convinto che la magistratura (ormai passata tutta col nuovo regime) sarebbe stata cattiva con gli italiani, e necessitasse invece una pacificazione nazionale. Quel coraggioso gesto politico di Togliatti portava tantissimi fascisti ad iscriversi al Partito comunista italiano, anche per disprezzo verso il radicato opportunismo della burocrazia, come di magistrati, industriali e dirigenti italiani. Mattei, De Gasperi e Moro applaudirono Togliatti. Poi iniziava una virtuosa (e anche dura) competizione tra democristiani e comunisti: basterebbe leggere qualche resoconto dell’epoca di Giovannino Guareschi (riassunse poi in satira in Don Camillo e Peppone) per capire cos’era il coraggio di fare politica.
Perché, forse, fratellini, legulei e forzisti hanno un senso confuso di come si sia creata la “pax democristiana” che, solo per alcuni aspetti, riproponeva l’alchimia della “pax romana” (quella dei tempi di Augusto): una sorta di pace che il dominus politico imponeva con autorevolezza ai vari poteri istituzionali (magistratura, burocrazia e simili) per il bene del popolo. Anche il democristiano Ciriaco De Mita aveva la forza, con autorevolezza, di mettere tutti gli istituzionali a tacere per il bene del lavoro in Irpinia. Lo stesso facevano Silvio Gava (padre di Antonio) ed Achille Lauro per il bene di lavoratori, operai ed artigiani napoletani. Nessuno tra loro si diceva timorato da fisco, giudici, banchieri e tronfi burocrati vari. Nessuno di loro era un Don Abbondio, piuttosto un Fra Cristoforo contro le angherie e le bravate della dirigenza di Stato.
Diversamente, molti membri di questa maggioranza corrono il rischio di passare alla storia come macchiette; come quei due pentastellati che si salutavano nei corridoi istituzionali con le mani giunte, ripetendosi rispettivamente con voce monastica: “Nel rispetto delle normative anti-Covid”. Una sorta di mantra pseudobuddista sul tipo di “nam myoho renge kyo”, una riedizione del “sutra del loto” in chiave sanitaria che ci auguriamo non riascoltare dai giovinetti di questa maggioranza. E non si vorrebbe che, per l’ennesima volta, le scelte di un governo avvengano sulla pelle dell’uomo della strada, del cittadino: questa volta reo di aver votato contro i poteri consolidati. Per ingraziarsi questi ultimi, fratellini, legulei e forzisti potrebbero anche legiferare contro i cittadini?
Certo, perché la classe politica degli ultimi trent’anni fa come Luca Palamara, guarda al popolo solo quando è fuori dai palazzi del potere.
Ecco perché l’opposizione gode sonni tranquilli, lasciando che il lavoro d’opposizione in trincea (nonostante il caso Soumahoro) lo svolgano i pubblici funzionari: a questi ultimi è stato demandato il compito di provocare incidenti di percorso che giustifichino la caduta del governo.
L’Esecutivo ha paura di agire, ecco perché Carlo Nordio non reputa opportuno passare alla storia azzerando l’enorme contenzioso per liti che pesa sul cittadino comune.
Nel suo discorso d’insediamento Giorgia Meloni ha citato l’esempio di Enrico Mattei, una storia che ci rimanda agli anni Cinquanta del secolo passato, quando la politica aveva l’autorevolezza di piegare l’alterigia della Pubblica amministrazione alle esigenze pratiche dei cittadini, del popolo italiano.
E se analizzassimo il quadro istituzionale degli ultimi dieci anni, potremmo anche considerare che Matteo Renzi ha assunto col tempo una nuova luce, soprattutto se paragonato a tanti leader contemporanei: il Governo Renzi è l’ultimo ad aver fatto una legge che ha permesso le assunzioni, i contratti di lavoro; dopo di lui nulla, solo chiacchiere su “reddito di cittadinanza” e “povertà sostenibile”. Renzi è un po’ come il Barone Haussmann, il grande politico che ha inventato l’urbanistica moderna di Parigi ed il riscatto industriale francese, ma anche quello accusato di aver contribuito con la sua visione napoleonica alla rivoluzione sociale, alla rivolta del popolo contro il potere come ebbe a dire Marx da Londra.
Ma la politica, nel bene e nel male, è osare, sognare: perché la politica e l’amore fanno platonicamente parte dell’agire visionario, e vanno oltre il campare alla giornata, l’evitare di destare il cane dell’avversario.
Aggiornato il 05 dicembre 2022 alle ore 13:39