Andare a votare? È un diritto-dovere

La visione nitida della sovranità popolare quale strumento es­senziale per la costruzione di un’Italia autenticamente democratica, trova conferma nell’intervento memorabile che Giovanni Cassandro, allievo di Benedetto Croce, svolse nel febbraio 1946 all’Assemblea plenaria della Consulta sul tema in discussione della legge elettorale e politica, cui partecipò quale rappresentante dei consultori liberali. I problemi politici più rilevanti, connessi con la convocazione della Costituente erano due: i limiti dei poteri della stessa e il referendum sulla questione istituzionale. Confutò le critiche di quanti avevano ritenuto che i liberali, dissertando su tali problemi di principio, avessero perso tempo su “questioni di lana caprina”, laddove – precisò – esse appassionavano e interessavano l’opinione pubblica, rendendo conseguentemente quanto mai opportuno conoscere il pensiero del Governo in merito. Fonte del potere costituente in un Paese democratico, secondo i liberali, doveva essere il popolo e non lo Stato, astrattamente configurato. Taluni giuristi viceversa – ricordò Cassandro – sostenevano che la sovranità era di quest’ultimo e non del popolo, secondo la dottrina tedesca “figlia e madre dello Stato etico”, di hegeliana memoria, di cui gli italiani avevano già fatto ben dura esperienza per vent’anni.

I liberali restavano fedeli alla tradizionale concezione della sovranità popolare: “Per questo motivo – disse – appunto noi sosteniamo che il potere costituente è del popolo, che il popolo lo delega ai suoi rappresentanti e che il popolo deve, nel delegarlo, indicarne i confini”. Conseguentemente né il Governo, né la Consulta, che non traevano i loro poteri da dirette designazioni popolari, potevano porre dei limiti e definire i poteri e le competenze della Costituente. Opportuno sarebbe stato seguire l’esempio della Francia e indire un referendum, chiedendo alla collettività se l’Assemblea Costituente avesse dovuto avere poteri illimitati o circoscritti. Nel caso che siffatta consultazione avesse avuto luogo, i liberali avrebbero suggerito di votare per dei poteri ben definiti, poiché le Assemblee Costituenti, organi di per sé transitori ed eccezionali, se prive di argini si potevano trasformare – e la storia ne forniva gli esempi – in strumenti di tirannide e di dittatura. Circa la proposta di rendere il voto obbligatorio, ricordò che i detrattori avevano parlato di misura anti-democratica e illiberale; ma – osservò opportunamente – poiché democrazia significava governo di popolo, logico corollario era l’adozione di provvedimenti che spingessero a votare la maggior parte di esso. Alle critiche formulate dalla Sinistra, testualmente replicò: “Voi affermate che le masse hanno una elevata coscienza, che esse devono rinnovare lo Stato e insieme affermate che ad esse manca la capacità di vota­re. Ed è stranissimo che i liberali, i quali in Italia hanno attuato il suffragio universale, si debbano oggi difendere dalle stesse accuse che ad essi muovevano i conservatori e reazionari del tempo, i quali dicevano che il popolo italiano non era ancora maturo per il suffragio universale. Un consiglio agli amici di Sinistra: abbiate per il popolo la stessa fiducia che abbiamo noi. Abbiate fiducia e consentite che il popolo dica chiaramente la sua parola”.

Quanto all’asserita illiberalità del suffragio obbligatorio, notò che l’accusa era mossa proprio da quelle forze politiche che nei loro programmi non avevano alcun principio liberale. Di seguito spiegò che il liberalismo, superato il travaglio particolare che nel secolo XIX lo aveva visto ritirarsi su posizioni conservatrici, per il timore degli esperimenti giacobini del secolo precedente e con una conseguente concezione elitaria della vita politica, veniva a porsi necessariamente in simbiosi con la democrazia, riguardo alla quale precisò che non solo “non può esserci democrazia senza rispetto delle minoranze e dei diritti della persona, ma che la libertà non possa difendersi se non con la partecipazione totale di tutto il popolo alla vita politica. Per questo motivo non è affatto illogico, dico, che un partito liberale chieda il voto obbligatorio”.

Né andava tralasciato un altro aspetto, che l’oratore con lucidità volle evidenziare, e cioè che una volta costruito il nuovo Stato senza il voto obbligatorio, troppo facilmente i suoi avversari avrebbero potuto asserire la non rispondenza tra il Paese legale, scaturito dalle elezioni per la Costituente, e il Paese reale, dato da chi ne era rimasto fuori. Cassandro, da attento storico del diritto qual era, non mancò di ricordare che siffatte contrapposizioni dialettiche erano ricorse frequentemente nella storia d’Italia, ed erano pericolosissime per le implicazioni che sottintendevano verso eventuali epiloghi dittatoriali. Conclusivamente, dichiarò di preferire il sistema elettorale proporzionale, con l’utilizzazione dei resti, a quello uninominale, che pur trovava adesioni in casa liberale.

Efficacissime le sue considerazioni finali: “Voi del Governo e noi della Consulta, siamo ormai alla fine del nostro compito: abbiamo esercitato un potere sulla base di titoli nobilissimi, quali erano la resistenza per vent’anni alla tirannide e la lotta di liberazione. Ma non dimentichiamo – e questo varrà soprattutto nelle discussioni che terremo intorno al referendum – che noi abbiamo esercitato un potere di fatto. L’abbiamo esercitato in nome del popolo e al popolo lo dobbiamo restituire. Avremo compiuto il no­stro dovere quanto più esplicitamente, più chiaramente faremo parlare il popolo. E allora, signori del Governo, colleghi della Consulta, potremo tutti recitare con serena coscienza il Nunc dimitte nos, Domine” (Vivi applausi).

Il 21 maggio 1947 l’Assemblea Costituente presieduta dal Terracini, proseguì la discussione generale del Titolo quarto della Parte prima del progetto di Costituzione: “Rapporti politici”, nel cui ambito si discusse circa l’obbligatorietà del voto, che alcuni parlamentari considerarono un dovere morale, prima ancora che giuridico. Il Mortati propose in tale seduta di definire l’esercizio del voto quale ”dovere politico e morale”. E più in particolare un diritto-dovere, “funzionale alla realizzazione di interessi che sorpassano il privato per toccare l’interesse della collettività. E se il diritto di voto è un diritto funzionale – proseguì  che è esercitato nell’interesse stesso della collettività, sorpassando l’ambito di quello dell’individuo che lo esercita, la qualifica che gli compete è quella di “politico” e politico sarà il dovere che corrisponde ad esso.”

L’articolo 48 della Costituzione testualmente recita: ”Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico”, cioè privo di qualsivoglia sanzione. In precedenza – viceversa – il votare era un dovere giuridico, per cui coloro che non vi ottemperavano riportavano sul certificato di buona condotta la dizione “non ha votato”, che non era priva di conseguenze sostanziali poiché, in base al Testo Unico sul pubblico impiego del 1957, preclusiva l’accesso al medesimo. Ciò avrebbe ancora oggi – a nostro avviso – una sua ragion d’essere, in quanto il non voto può considerarsi una sorta di sfiducia anticipata nei riguardi dello Stato, con la logica conseguenza che se ne dovrebbe trarne, di non consentire a coloro che in tal modo intendono estraniarsi dallo Stato medesimo, di prestarvi servizio.

Fino al 1984 la “buona condotta” era stata (articolo 2, primo comma, numero 3, del Decreto del presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3) un requisito necessario per l’accesso al pubblico impiego. A tale data, il Parlamento sancì con l’articolo unico della legge 29 ottobre 1984, n. 732, che “ai fini dell’accesso agli impieghi pubblici non può essere richiesto o comunque accertato il possesso del requisito della “buona condotta”, per cui fu abrogata la richiamata normativa del 1957, con la conseguente irrilevanza del non aver votato, al fine dell’accesso al pubblico impiego. Ora è a tutti noto l’elevato tasso di astensionismo che è giunto al 50 per cento degli aventi diritto al voto, con la conseguenza che sia il Parlamento nazionale, che le assemblee elettive regionali, provinciali e comunali, sono oggettivamente rappresentative solo della metà della popolazione, che sovente è quella che più si lamenta per l’inadeguatezza dei rappresentanti politici. Ciò è un non senso logico, prima che giuridico: è come il rifiutarsi di partecipare ad un’assemblea condominiale, e lamentarsi poi delle delibere prese da altri, le cui conseguenze ricadono – naturalmente – anche sugli assenti. Dal punto di vista etico l’astensionismo, otre ad essere il sintomo di un qualunquismo da bar dello sport, è anche un segno di scarsa maturità democratica, in quanto si cede ad altri di decidere al proprio posto, salvo poi a piangerne le conseguenze.

L’astensionismo è un oltraggio alla memoria dei Martiri della Resistenza, che versarono il loro sangue per donare alle generazioni future il bene prezioso della libertà. Nel fascismo – come è noto – le elezioni erano state irrise come “ludi cartacei”. Oggi un italiano su due, non andando a votare, ha gettato nel cestino quel dono, facendo rivoltare nella tomba gli Avi che si batterono per la dignità di Uomini liberi! Non bisogna poi meravigliarsi per dei Governi che “navigano a vista”, galleggiando su coalizioni eterogenee, che affiorano e si inabissano come l’Isola Ferdinandea, in quanto dopo la scomparsa dei partiti tradizionali, strutturati su solide basi ideologiche, oggi il consenso si coagula sul crisma del singolo leader carismatico, o sulla capacità affabulatoria del pifferaio di Hamelin di turno. C’è un rimedio a questa situazione di democrazia agonizzante, dove la stessa radice etimologica ha perduto il significato (demos e cratos = potere del popolo)?

Sì, ripristinare il “diritto-dovere” di andare a votare, funzionale al concreto esercizio dei diritti di libertà, nella qual categoria di diritto-dovere rientra anche – nel microcosmo della famiglia – l’esercizio della patria potestà. Qualsiasi riforma oggi varata nel contesto di una democrazia zoppa, che cammina con una gamba sola, è destinata a morire con essa, mentre nello scenario internazionale si riaffacciano gli spettri del totalitarismo pronto a reincarnarsi – alle porte di casa – in un delle sue proteiformi reincarnazioni.

Aggiornato il 24 febbraio 2022 alle ore 12:56