La libertà non è un concetto astratto

Il rapporto dialettico tra autorità e libertà è antico come la storia della civiltà organizzata, dove ognuno rinunzia a parte dei suoi diritti, acconsentendo ad associarsi con altri uomini, per ottenere in cambio la salvaguardia di beni primari come la vita, la pace, la proprietà. La Dichiarazione dei “Diritti dell’Uomo”, votata in Francia il 26 agosto 1789, così ne proclamò la tutela: “Obiettivo di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Tali diritti sono la libertà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione”.

Thomas Paine in un saggio sui diritti in questione, scrisse che le prime Costituzioni americane rappresentavano per la libertà quello che la grammatica era per la lingua. Una libertà individuale senza limiti di sorta finirebbe col risolversi nell’esatto suo opposto, cioè nell’anarchia, e da lì nel tetro ordine dell’autoritarismo. Ben diversa è la relazione tra libertà ed ordine democratico, evidenziata efficacemente da Benedetto Croce nel 1944, che in aperta polemica con i comunisti disse: “Una richiesta di serbare l’ordine pubblico anche mercé la forza pubblica e di osservare la legalità, incontra subito la taccia di “reazione” o addirittura di “fascismo”. Per contrario, i propositi di violenza, di sopraffazione e di dittatura si decorano e si celano con nome di “instaurazione della democrazia o della “verademocrazia… Se a certuni tanto aggrada di chiamarci conservatori, or dunque noi diremo di essere conservatori, ma conservatori di un bene fondamentale rispetto a tutti gli altri beni, di un bene comune, che è degli uomini tutti: “La libertà””.

Il discorso sulla dittatura merita una breve riflessione circa le due diverse fattispecie da cui può avere origine:

- presa di potere con un colpo di Stato eversivo rispetto all’ordine in precedenza esistente (la storia dell’America latina è ricca di esempi al riguardo);

- assunzione di potere in conformità del diritto vigente e successiva gestione autoritaria del potere stesso (illuminanti al riguardo, sono le vicende della Germania, a far data dalla assunzione del Cancellierato da parte di Adolf Hitler dopo la strepitosa vittoria ottenuta dal partito nazista nel 1929).

Vi è un’ultima e più remota fattispecie, che riguarda la dittatura come esercizio monocratico del potere nel tempo breve: era in uso nella Roma repubblicana, allorché la salus suprema rei publicae suggeriva di affidare a una sola persona, e per sei mesi, il potere decisionale. In condizioni di emergenza l’accentramento della sovranità può rendere accettabile quel che nell’ordinario è violazione di un più o meno espresso patto sociale tra governanti e governati. Quando tale patto viene violato, scatta il cosiddetto diritto di resistenza, che è quello del singolo o di gruppi organizzati o di organi dello Stato, o di tutto il popolo, di opporsi con ogni mezzo, anche con la forza, all’esercizio arbitrario e violento, non conforme al diritto, del potere statale. Nell’Alto Medioevo estrema conseguenza del diritto in questione era il tirannicidio, ammesso da Giovanni da Salisbury, la cui liceità morale non fu mai ritenuta dalla Chiesa. Il principio che anche i Sovrani dovessero essere soggetti alla legge prende le mosse dall’Età medievale, allorché i civilisti affrontarono il problema dell’osservanza delle regole anche da parte del Princeps.

La concezione che egli fosse legibus solutus, o addirittura lex animata in terris, risalente ad Ulpiano nel terzo secolo dopo Cristo, era stata fatta propria dal Barbarossa e da Federico II di Svevia nella loro concezione assolutistica. Tuttavia, non solo in Inghilterra a partire dalla Magna Charta (1215), ma anche nell’Italia dei Comuni e in particolare nell’Università di Bologna, si diffuse la tesi che i detentori del potere, oltre che alle leggi divine e naturali, avessero l’obbligo di rispettare il diritto positivo, quanto meno per dovere morale. Il menzionato diritto di resistenza mirava alla restaurazione dell’ordine violato e alla cessazione del potere arbitrariamente esercitato; ma non alla creazione di un ordine nuovo, come avviene invece nelle rivoluzioni. Durante la Rivoluzione francese il diritto in parola fu considerato come una conseguenza naturale di quelli di libertà, di proprietà, di sicurezza, e fu pertanto inserito nella citata Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo.

Nel secolo trascorso, il diritto di resistenza è tornato di drammatica attualità nei Paesi totalitari, ma in quelli liberi non ha ragione di esistere, come fu ben rilevato dalla Commissione per la nostra Assemblea costituente, che lo ritenne incompatibile con lo Stato democratico, nel quale il popolo – fu detto – “ha competenza di interventi diretti, per determinare il funzionamento dei poteri supremi. Nel secolo attuale, il rapporto tra libertà e autoritarismo ha assunto una nuova valenza nelle relazioni internazionali, dove è stato teorizzato il cosiddetto potere “di intervento umanitario” da parte di Paesi democratici, per ripristinare la libertà in quelle aree del mondo dove i più elementari diritti sono stati sistematicamente calpestati. L’Afghanistan odierno, con i Talebani nuovamente al potere e la restaurazione di una dittatura integralista, in spregio ai diritti umani in genere, e delle donne in particolare, rappresenta il drammatico ritorno a un passato di lacrime e sangue, riportando indietro le lancette della storia della civiltà.

L’Unione europea, pertanto, oggi proporsi più che mai e con maggiore coesione in unità di intenti, quale elemento di equilibrio per la soluzione delle controversie internazionali, ponendosi come protagonista attiva della diffusione della cultura della legalità e dei diritti umani, in stretta connessione con quella della libertà, che – come insegnava il Giambattista Vico – non è mai arbitrio, bensì comprende come suoi momenti l’ordine, l’autorità, le istituzioni. La cultura in senso lato è anch’essa un fattore di libertà, poiché attraverso di essa matura quel discernimento che consente di distinguere la democrazia dalla tirannide. Non è dunque un caso se tutti i regimi totalitari del passato e del presente, hanno osteggiato l’istruzione, poiché la circolazione delle idee, attualmente molto più rapida, grazie alle moderne tecnologie, può risultare eversiva dell’ordine costituito. A tal riguardo, la chiusura delle scuole alle donne, è il significativo “biglietto da visita” dei Talebani.

Benedetto Croce ritenne che il miglior ammaestramento alla libertà, potesse scaturire dalla libertà medesima: “Non si è trovato finora altro modo di educare i popoli alla libertà scriveva nel 1927cioè di educarli senz’altro, che quello di concedere loro la libertà e di far che imparino con l’esperienza, e magari col fiaccarsi la testa”. Nel 1944, rivolgendosi a docenti e studenti dell’Università di Firenze, sviluppò ulteriormente il suo pensiero: “Ho sempre affermato che lo studio della grande letteratura educa ed entusiasma alla libertà… L’affetto vostro, di cui faccio grandissimo conto, mi risveglia sempre più l’idea che noi lavoriamo, ma il nostro lavoro ci oltrepassa. Possiamo morire: questo è un incidente. L’opera, la fede nella libertà continuano”.

La libertà da lui configurata consisteva, nella vita di tutti i giorni, nel rispetto delle altrui opinioni, nelle disponibilità ad apprendere anche dagli avversari e così ad approfondirne la conoscenza, il che tornava utile – avvertì – affinché “non debbano nascondersi, nascondendo il loro pensiero e le loro intenzioni”. La libertà è il principio ispiratore e il fine della dottrina politica del liberalismo, che don Benedetto ritenne autonomo dall’economia, e quindi dal liberismo in particolare, ragionando in questi termini: “Il liberalismo in quanto ideale della vita morale dell’umanità, non può fare suo proprio rappresentante o suo strumento nella sfera economica né il liberismo, né lo statalismo. Non può perché superiore ad entrambi, ha bisogno di tutti e due questi ordini o classi di metodi e di istituti economici, avvalendosi secondo i casi ora dell’uno, ora dell’altro, ma respingendoli tutti e due quando, disconoscendo questa loro relatività, si fanno assoluti e si atteggiano a ideali di vita sociale e morale”.

E in un altro scritto così si espresse: “Il liberalismo non coincide col cosiddetto liberismo economico, con quale ha avuto bensì concomitanze, e forse ne ha ancora, ma sempre in guisa provvisoria e contingente, senza attribuire alla massima del lasciar fare e lasciar passare altro valore empirico, come valida in certe circostanze e non valida in circostanze diverse”. Contro siffatta impostazione si levò Luigi Einaudi, il quale obiettò che la natura intrinsecamente illiberale di sistemi schiavizzanti come il comunismo o il capitalismo monopolistico, non avrebbero potuto convivere con l’etica liberale: “Non può esistere libertà dello spirito – precisò – libertà del pensiero, dove esiste e deve esistere una sola volontà, una sola ideologia”.

Alla luce di esperienze concrete come quella della Cina post-maoista, la storia sembrerebbe aver dato ragione al Croce, in quanto si può osservare la coesistenza di un regime totalitario, con l’economia di mercato e quindi la reciproca indipendenza fra sistema politico e sistema economico, ispirati a valori molto diversi. Una più attenta ponderazione ci impone di considerare che sia Croce che Einaudi, seppur giungendo a conclusioni diametralmente opposte, erano partiti dal comune presupposto della compatibilità o meno fra il liberalismo, quale ideale etico, e modelli economici dirigistici. Nel caso della Cina popolare si è realizzata una comparazione all’inverso: un sistema economico di mercato si è sviluppato nell’ambito di uno Stato che non ammette nessuna di quelle forme di libertà dello spirito, che sono essenziali per l’idea liberale.

Nondimeno riteniamo che in quell’immenso Paese, la libertà di mercato in un futuro non lontano farà da battistrada a quella civile, politica, religiosa, poiché essa insieme ai viaggi e all’adozione del Diritto romano giustinianeo tradotto in cinese a fondamento del codice civile, concorrerà inevitabilmente alla realizzazione della libertà politica. Se dunque nel tempo breve (anche 70 anni possono considerarsi tali nel cammino dell’umanità) possono coesistere sistemi politici ed economici perfettamente autonomi, come teorizzato da Croce, nel tempo lungo è inevitabile la reciproca influenza tra “anima” e “corpo” dello Stato e la finale, naturale armonia, come sostenuto da Einaudi.

Non vi è antinomia se non in apparenza, poiché si tratta di due stadi diversi della crescita di un sistema, che deve necessariamente epilogare nella democrazia liberale, che è l’unica forma di Governo conforme alla natura ordinata da Colui che ci ha creati liberi.

Aggiornato il 26 ottobre 2021 alle ore 12:50