Probabilmente sarà come l’ha raccontata la moglie, Claudia Carbonara, rispondendo a un giornalista de “Il Corriere della Sera” che le chiedeva spiegazioni sulla decisione di suo marito, Walter Biot, di vendere segreti militari ai russi. Già, perché è proprio questo che ha fatto il Capitano di fregata della Marina militare italiana, Walter Biot, di anni 54, in servizio presso il Terzo Reparto – Politica Militare e Pianificazione – dello Stato maggiore della Difesa: ha tentato di passare segreti militari ai russi.
Per la signora Claudia, il consorte si sarebbe venduto perché i soldi dello stipendio non bastavano a fare fronte ai pressanti problemi economici causati da un complicato ménage familiare. Quattro figli, quattro cani, un mutuo da pagare, non si alimentano da soli. E Walter ha deciso di prendere la scorciatoia: accordarsi con l’antico nemico per raggranellare un po’ di quattrini. Decisamente pochi, visto quanto gli hanno trovato indosso i carabinieri del Ros che hanno proceduto all’arresto in flagranza di reato: cinquemila euro. Una cifra ridicola, se si considera l’oggetto dello scambio. Ridicola al punto da far pensare che o il Biot abbia fotografato e inserito in pen-drive per i suoi referenti russi poco più che un pacco di dépliant o il capitano di fregata sia stato, talmente disperato, da buttare via la sua esistenza, e il suo onore, per un piatto di lenticchie.
Bisognerebbe starci dentro alla mente umana per capire come all’improvviso i neuroni comincino a girare all’incontrario. Ma non siamo, né vogliamo esserci, nella testa di Walter Biot che avrà un lunghissimo periodo di tempo da trascorrere dietro le sbarre per ripensare alla cavolata che ha commesso. Sarà come dice la moglie: il marito “non voleva fottere il Paese”, ma di sicuro si è “fottuto” lui e ha scaricato un’insostenibile ipoteca sulla vita di quei quattro poveri figli che, d’ora in avanti, dovranno combattere contro le lettere scarlatte e i marchi d’infamia dei pregiudizi della gente e delle istituzioni, per le quali saranno per sempre i figli del traditore. Bruttissima storia che viene difficile da raccontare, figurarsi commentarla. L’unica cosa è non incarognirsi a pittare di nero un personaggio che è stato travolto da tutto il suo stesso grigiore.
Ma se il fatto in sé – penosissimo – non merita eccessiva attenzione, altro discorso attiene a due aspetti delicatissimi che la vicenda ha portato alla luce. Il primo. Sappiamo con certezza che i russi ci spiano. Si dirà: nessuna meraviglia se il lupo perde il pelo ma non il vizio. Non basta, però, a giustificare un comportamento totalmente sbagliato di Mosca verso un interlocutore geopolitico quale l’Italia, che pur restando saldamente organica all’Alleanza transatlantica, ha continuato a puntare sul dialogo rafforzato con l’ex nemico dei tempi della Guerra fredda. Il rischio più serio è che le informazioni che Biot avrebbe passato, se non lo avessero fermato in tempo, riguardassero dettagli della pianificazione strategica della Nato nel quadrante europeo e mediterraneo.
Per i compratori russi sarà stato questo il frutto proibito da cogliere dall’improvvida collaborazione del militare italiano, ma a quale prezzo per le relazioni tra i due Paesi, proprio in una fase caratterizzata dalla ripresa dell’aggressività dell’Amministrazione di Washington nei confronti del Cremlino? La domanda che vorremmo porre ai vertici moscoviti della Federazione Russa è la seguente: le informazioni promesse da Walter Biot valevano più dell’opportunità di avere l’Italia schierata dalla propria parte, in sede europea e di Patto Atlantico, per tornare a una politica meno ostile nei propri confronti? Se il militare infedele ha dimostrato di essere un poveraccio, non è che i vertici degli apparati di sicurezza e d’intelligence di Mosca abbiano rimediato una figura migliore.
Secondo aspetto negativo. A prescindere dalla gravità dei reati contestati, sarebbe stato necessario che, in parallelo con il lavoro degli inquirenti, si fosse mosso in simultanea l’organismo parlamentare deputato al controllo della sicurezza della Repubblica. Il Copasir – Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica – avrebbe dovuto acquisire tempestivamente tutti gli elementi atti a valutare, ai fini della salvaguardia dell’interesse nazionale, la quantificazione del danno riconducibile all’attività spionistica svolta dal Biot. Ma sembra che ciò non sarà possibile, almeno nell’immediato. Già, perché il Copasir non è chiuso per ferie ma ugualmente non si riunisce da oltre settanta giorni (l’ultima seduta risale al 26 gennaio scorso). Eppure, stando alla Legge numero 124 del 3 agosto 2007 sul “Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto” che al comma 2 dell’articolo 30 recita testualmente: “Il Comitato verifica, in modo sistematico e continuativo, che l’attività del Sistema di informazione per la sicurezza si svolga nel rispetto della Costituzione, delle leggi, nell’esclusivo interesse e per la difesa della Repubblica e delle sue istituzioni”, il vuoto operativo dell’organismo parlamentare non vi dovrebbe essere.
Cos’è accaduto? Colpa della solita politica che combatte la guerra dei bottoni. Riassumiamo i fatti. Il Comitato è presieduto dal settembre 2019 dal leghista Raffaele Volpi. La sua nomina, in avvio di Governo giallorosso, il Conte bis, non è stato il risultato di un tiro mancino della minoranza ma l’ottemperamento di un obbligo di legge che attribuisce il ruolo apicale del Comitato a un membro espresso dall’opposizione. In tal senso, l’articolo 30 della Legge numero 124 del 3 agosto 2007 che al II capoverso del 3° comma prescrive: “Il presidente è eletto tra i componenti appartenenti ai gruppi di opposizione e per la sua elezione è necessaria la maggioranza assoluta dei componenti”.
Dal 13 febbraio 2021 a Palazzo Chigi non c’è più Giuseppe Conte ma Mario Draghi con una nuova maggioranza, che ha imbarcato dentro tutti i partiti dell’arco costituzionale che hanno gruppi parlamentari formati sia al Senato, sia alla Camera. Tutti tranne uno: Fratelli d’Italia. Ora, il deputato leghista Raffaele Volpi sarà pure bravo e accorto nel fare il suo lavoro di presidente del Copasir, ma la legge va rispettata. Ne consegue che, legittimamente, la presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, abbia piantato una grana perché si rispettino le regole (anche quella della composizione partitaria del Comitato tra maggioranza e opposizione come previsto dalla Legge 124/2007 – articolo 30, I comma) e quindi, per cominciare, la presidenza dell’organismo di controllo degli apparati di sicurezza passi a un membro del suo partito.
Il presidente leghista del Copasir non ci sta a mollare la poltrona e la tira in lungo, evitando di convocare l’organismo. Intanto la Meloni ha stretto d’assedio la maggioranza. Non a caso, della questione Copasir ha parlato con Enrico Letta nel corso di un primo faccia-a-faccia. Al neo-segretario del Partito Democratico, che fa una fatica inumana a tenere a bada i suoi, non è parso vero di seminare zizzania nel campo nemico, per cui si è prontamente dichiarato d’accordo a sostenere presso gli altri leader della maggioranza le ragioni di Fratelli d’Italia. Di regola, toccherebbe ai presidenti di Camera e Senato sbrogliare la matassa, ma finora non l’hanno fatto, forse perché fiduciosi che sarebbero stati i capi dei partiti coinvolti nel contenzioso a sbrigarsela da soli. Comunque sia, non è tanto scandaloso che un poveraccio come l’ufficiale della Marina sia stato colto in fallo (in ogni catena ci può essere un anello debole pronto a spezzarsi), quanto lo è la scriteriata paralisi di un organismo che, dopo l’arresto della spia, avrebbe dovuto convocare in audizione i direttori di Aisi (Agenzia informazioni e sicurezza interna), Aise (Agenzia informazioni e sicurezza esterna) e il comandante del Ros (Raggruppamento operativo speciale) dei carabinieri, per verificare quali informazioni siano state offerte a una potenza straniera e verso quali vantaggi competitivi indirizzate.
Non è accettabile che per questioni di bottega partitica si esponga la Repubblica a un simile vuoto di potere. Non più tardi della scorsa settimana sul nostro giornale si è sviluppato un appassionato dibattito sul futuro del centrodestra. Belle parole, sagge riflessioni, ottime intenzioni. Tuttavia, se il buongiorno si vede dal mattino, per l’ennesima volta tocca constatare che si sia partiti col piede sbagliato. Pessimo segnale.
Aggiornato il 02 aprile 2021 alle ore 11:22