L’Italia avrebbe bisogno di Stati generali dell’anima nazionale

Questa dilaniata e decadente Italia avrebbe proprio bisogno di Stati generali. Forse non quelli di Giuseppe Conte, indetti senza una pianificazione concertata con gli altri componenti del governo e con le opposizioni, affinché siano un momento davvero unitario. Forse non Stati generali pensati più come passerella promozionale che non luogo di scelte identitarie da parte di un governo partito delegittimato e che arranca avversato. Perché l’Italia, come il resto del mondo dopo il lockdown, non è più la stessa nazione e la crisi economica già in corso è diventata una questione che ha scosso le fondamenta e che richiede una “rifondazione” per ritrovare la vocazione e il marchio, oltre che leggi e piani economici. Così non va, certo. Hanno ragione i leghisti di Matteo Salvini e i “fratelli” di Giorgia Meloni, mentre Silvio Berlusconi con Forza Italia mantiene la barra al centro. E come anche il partito di Matteo Renzi in fondo ammette, sebbene restio a staccare la spina.

Ma, ditemi, cosa cambierebbe davvero anche se si votasse in autunno e vincesse il centrodestra? Ci vorrebbe una maggioranza schiacciante e assoluta, i “pieni poteri” che alla fine cercano tutti, non solo Matteo Salvini, altrimenti avremmo solo mutato facciata. Per “cambiare l’Italia” come necessario bisogna o avere i numeri per poterlo fare in modo assoluto, oppure non resta altra via che agire di concerto mediando differenze e distanze e trovando sintesi praticabili. Altrimenti, chiunque governi, si ritroverebbe un’opposizione litigiosa, ostacolativa e nel caso della sinistra che ha in mano se non tutto quasi, dopo le nomine e i centri potere aggiudicati. Lo andiamo ripetendo da anni, la sinistra è contigua alla magistratura, controlla l’editoria, il giornalismo, lo spettacolo, la cultura, pezzi di economia, soprattutto ormai determina la morale. E questo vuol dire moltissimo, perché per decenni la distanza tra i due schieramenti e il vantaggio dei partiti conservatori era determinato non dai nomi e dalle ideologie, ma dal fatto che la nazione si riconosceva in principi inderogabili sulla vita e nell’etica, i quali regolavano il rapporto tra persone e stabilivano i ritmi di una società eterosessuale fondata sulla famiglia. Principi atavici, diventati il marchio italiano nel mondo, il famoso “made in Italy”, la qualità e il prodotto. Da Albano e Romina alla pasta, cioè le industrie tricolori. Quello che vinceva non erano il pomodoro o il Colosseo, ma la cristianità storica, artistica, culturale, ideale diventata economia e politica. La lunga stagione della Democrazia cristiana per intenderci, durata tanto sino a scalare i massimi vertici delle Nazioni Unite.

La sinistra dagli anni Sessanta ha lentamente e inesorabilmente smantellato questa struttura nazionale e internazionale e ci ha gettati nella crisi. Oggi l’Italia non poggia sui principi storici della sua fede, ma mostra ed esporta le idee della sinistra sulla vita, sulla non famiglia, sullo statalismo, soprattutto sul sesso e sulla identità. Non più l’Italia dei secoli. E non più l’Italia centro d’Europa. Lo faceva notare anche Giorgia Meloni, che se alla fine la Ue ci sta venendo incontro è perché ha dovuto ammettere che il nostro paese è fondativo ed essenziale alla Comunità. Ma l’Italia di oggi e l’Italia della malasanità, della corruzione, dell’illegalità, delle mafie, dei traffici oscuri, dei rifiuti, dei femminicidi e della cronaca nera in una scia di sangue inesorabile a cui si è aggiunta la pandemia mortale.

Per queste ragioni anche cambiasse il governo ci ritroveremmo con lo stesso caos, la stessa litigiosità e gli stessi conflitti solo capovolti. Infatti, se nel campo di questioni demagogiche (ebrei, neri, clandestini, donne, omosessuali, libertà individuali) accade qualcosa i primi a dimostrare opinioni omologate sono quelli che una volta avrebbero fatto le barricate. L’Italia è ormai identitariamente diventata progressista. Il centrodestra non segna più distinzioni sostanziali, si limita a proporre le sue ricette di potere, i suoi volti di potere, le sue poltrone. E su questioni cruciali, come le minoranze e gli stranieri, se cerca di segnalarsi rischia di essere percepito autoritario di vecchia destra. Come è accaduto con Matteo Salvini contro gli sbarchi. Perché manca lo spirito dei grandi valori cristiani che anche la Chiesa attuale, la quale ha abbracciato la teologia della Liberazione e cioè il vangelo comunista, ha contribuito a disperdere. E non basta sventolare il rosario, perché il credo è valore e pensiero.

Per cambiare l’Italia non basta proporre un fisco diverso, meno burocrazia, o solo un’altra Europa finanziaria. Per cambiare l’Italia occorre ritrovare i valori italiani attentati anche dagli avversari economici internazionali, perché sono questi che vincono nel mondo e nella storia. In questa ottica gli “Stati generali italiani” sarebbero una possibile ripartenza, a cui partecipare non con l’assillo delle percentuali del “governo io”, ma con un piano per le idee, per la fisionomia sociale, per l’identità. Prima l’etica sui tanti temi di svolta, poi i conti. Altrimenti continueremo a bruciare miliardi di fondi aumentando il debito e il fisco senza risolvere il problema dei poveri e sofferenti, dei profughi e dei clandestini che ci assediano. Saremo sempre di più un paese in cui si parla solo di soldi, ma non di produttività, di qualità e di benessere. Non l’Italia che aiuta l’Africa, ma un’Italia in cui chi nasce povero e malato tale resta e peggiora. Non è questa la nostra vocazione. Non siamo né un Paese musulmano né ebreo né comunista, ma una terra nobile e ricca, i cui valori sono l’arte, la storia, il talento che discendono dalla nostra ineguagliabile fede. L’Italia delle arti e dei mestieri, di Dante e Leonardo da Vinci, dei pittori, dei geni, dei poeti, dei pittori, degli inventori, dell’Anima mundi. Chi lo contesta?

Aggiornato il 09 giugno 2020 alle ore 12:25