Francesco Cossiga, ovvero del primato della coscienza

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Francesco Cossiga (1928-2010), nel corso di una vita assai ricca, nei recessi di un’anima foscolianamente inquieta, fu un cattolico sui generis in quanto – pur nella devota obbedienza alla Chiesa – non mise mai la sordina all’intelligenza sua vivissima, che privilegiava il primato della coscienza su ogni dogmatico assioma; fu liberale nella passione civile che costantemente lo animò per la salvaguardia delle istituzioni libere e democratiche, ma non lo fu altrettanto coerentemente per la scarsa disponibilità a confrontarsi con l’altrui sentire; fu un democristiano anomalo, in quanto per sua natura poco duttile. I punti fermi della sua vita furono l’amor patrio, la salda fede e la lealtà assoluta verso l’Alleanza Atlantica, quale presidio irrinunciabile dell’identità occidentale, connotata dai valori della libertà e della democrazia. La sua rappresenta la più complessa storia degli “inquilini del Colle”, dato che la tragedia dell’assassinio di Aldo Moro ne segnò lo spirito ed il fisico sino alla fine dei suoi giorni, nel devastante rimorso di non essere riuscito ad impedire la morte dell’amico, della quale mai cessò di sentirsi moralmente responsabile. La follia che taluni gli ascrissero e che egli stesso non disdegnò con qualche compiacimento di auto-attribuirsi, se nel caso dei detrattori ebbe intendimenti palesemente denigratori, nella sua personale interpretazione –perché di essa fondamentalmente si trattò – andava intesa nei modi del Teatro elisabettiano, dove il protagonista, simulando la pazzia, poteva dire ciò che da savio non avrebbe altrimenti potuto esprimere.

Eletto alla Camera a soli trent’anni, risultò sempre “il più giovane “titolare nei principali incarichi di Governo conferitigli, nonché al vertice del Senato ed, infine, della presidenza della Repubblica. Era accreditato come più preparato e più vivace intellettualmente rispetto alla media dei suoi colleghi, con una particolare predilezione per la materia militare, le distinzioni onorifiche, l’araldica, l’intelligence, le innovazioni tecnologiche e le telecomunicazioni. Il tutto era supportato da una spiccata cultura umanistica, che spaziava dal diritto alla storia, alle lingue straniere, alla filosofia ed alla teologia. Non era un grigio erudito, ma un conversatore amabile e brillante, una miniera di conoscenza, di date e dati su uomini e cose, sui quali amava intrattenere l’interlocutore, senza fastidioso sfoggio di accademica erudizione, bensì con semplicità colloquiale, condita sovente da metafore lessicali, arguti motteggi, battute ad effetto. Precoce fu pure il suo impegno accademico, che lo vide giovanissimo conseguire la libera docenza in Diritto pubblico e ricoprire la cattedra di Diritto costituzionale e regionale all’Università di Sassari. Al diritto astratto insegnato nelle Aule universitarie, finì presto col prediligere quello vissuto nella concretezza dell’impegno istituzionale, che volle coltivare nelle Aule parlamentari.

Negli anni Settanta, durante i moti di piazza fece ricorso ai blindati ed ai reparti schierati con equipaggiamenti antisommossa per combattere il terrorismo armato, non ricusando di infilare tra gli eversori anche elementi delle forze dell’ordine, il che, se poteva avere una sua giustificazione in una previa azione di intelligence per evitare i disordini, non ne aveva tuttavia alcuna nel cooperare a fomentarli, onde poi legittimare il conseguente intervento dei reparti preposti alla sicurezza pubblica. Cessata l’esperienza alla guida del Governo, nel luglio 1983 venne eletto presidente del Senato, per assurgere due anni dopo (giugno 1985) e con amplissimo suffragio al supremo Colle. Pronunciato il giuramento di rito, affermo l’impegno ad essere il primo e leale garante dell’unità patria, dei diritti di tutti i cittadini, della vita democratica e civile del Paese. Avrebbe costantemente prestato una particolare attenzione al sentire della gente comune, alla valorizzazione del ruolo della donna, della famiglia e dei giovani, in una prospettiva di progresso nella solidarietà. A tal fine, occorreva una politica economica coerente e severa, in grado di indirizzare più efficacemente le risorse prelevate dallo Stato, nonché di tagliare gli sprechi, controllando la spesa pubblica e combattendo egoismi e privilegi corporativi, ed infine premiando il lavoro, il coraggio e la fantasia, con la rimozione degli ostacoli all’uguaglianza.

Denunziò in una successiva circostanza l’inflazione del carcere preventivo, che minacciava di risolversi nella violazione dei diritti umani, mentre doveva mantenersi sempre rispettoso della difesa delle garanzie individuali. Per converso, pur condividendo la necessità di estendere la cosiddetta “legislazione premiale” sui pentiti del terrorismo anche a quelli di mafia e camorra, avvertì la necessità di un’estrema cautela sulle loro dichiarazioni, che potevano astutamente indirizzarsi a depistaggi e ad inquinamenti delle indagini. In campo internazionale affermò che le colossali risorse devolute alla corsa agli armamenti, avrebbero dovuto essere più utilmente indirizzate verso opere di pace e di progresso, mediante un disarmo progressivo e bilanciato. Parlando delle contestazioni studentesche, consentì sulla loro liceità ove non tracimassero nella violenza, quando i giovani si lasciavano traviare da forze politiche miranti a stravol­gere lo Stato. Visitando il carcere minorile di Nisida, tenne a distinguere le responsabilità dei minori, da quelle di coloro che se ne servivano (nel caso di specie come manovalanza del crimine). Una prima “messa a punto” delle sue considerazioni in materia istituzionale, avvenne in occasione del 40° anniversario della Repubblica, tramite il messaggio inviato al Parlamento riunito, il 2 giugno 1986. Ricordò che nella dialettica democratica bisognava riscoprire la funzione dei Partiti, quali “strumento indispensabile” per realizzare gli interessi generali, purché non sì riducessero a strumenti di mero potere.

Gli spazi della democrazia andavano ampliati mediante la realizzazione compiuta delle autonomie locali; ma anche tramite l’attuazione del principio costituzionale dell’imparzialità della Pubblica amministrazione nel suo insieme, quale pre–condizione per la crescita morale, civile ed economica dell’intero Paese. Investire maggiormente nella scuola e nella ricerca – massimamente in quella sanitaria – lottare la droga e la disoccupazione, rispettare la dignità dell’uomo nel progresso scientifico e tecnologico, rilanciare l’agricoltura, espandere i mercati, ridurre selettivamente disavanzo pubblico ed inflazione, tener presente la priorità del problema del Mezzogiorno; queste furono le linee-guida che sottopose all’attenzione delle Camere. Ad un anno dall’ascesa al Colle, la stampa nazionale evidenziò l’agire del presidente come quello di un “quieto e fermo difensore civico”, fuori peraltro da un ruolo meramente notarile, in quanto dinamicamente proteso ad avvalersi, nella sua fitta rete di comunicazioni, di tutte le moderne opportunità tecnologiche, a supporto di un’attività intensa, seppur senza clamori. Nel 1987 esaltò la capacità di risparmio dei cittadini, costituente una risorsa preziosa massimamente nei momenti di crisi delle Borse internazionali, per cui invitò gli italiani a perseverare nel risparmio e ad aver fiducia nel Paese.

Il 1988 fu quello che il presidente definì nel messaggio finale di augurio, un anno “straordinario e miracoloso” per i progressi sortiti nelle relazioni internazionali tra gli Stati; ma restavano irrisolti i problemi interni rilevati l’anno precedente, puntualmente ricordati, alla cui soluzione doveva concorrere la “realizzazione di un maggior rigore morale nella vita pubblica”. L’evento di maggior rilievo a livello mondiale fu, nel 1989, la caduta del Muro di Berlino, le cui conseguenze sarebbero andate ben oltre l’importanza storica della riunificazione tedesca, essendo venuto meno il sistema della speculare deterrenza bellica tra i due blocchi, basata sull’equilibrio del terrore risalente agli accordi di Yalta. Cossiga aveva capito benissimo, prima e meglio di ogni altro, che la crisi del bipolarismo internazionale avrebbe avuto incisive ripercussioni in Italia più che in altri Paesi, con conseguenze per tutti i Partiti, che furono perciò esortati a gestire la nuova fase storico-politica che si preparava; ma rimase inascoltato, per cui in seguito osservò che la politica si era indebolita a partire da Mani Pulite, dato che la Magistratura era divenuta un vero e proprio potere politico, nel quale avevano avuto influenza sia la matrice cattolica, che quella comunista, unite dal comune anelito catartico-giustizialista sintetizzabile in queste inquietanti parole di Leoluca Orlando, che tenne a ricordare testualmente: “Meglio cento innocenti in galera, che un mafioso colpevole libero”. L’Alleanza Atlantica avrebbe assunto, nel nuovo assetto internazionale scaturito dalla fine del comunismo, un ruolo più politico che militare, mentre nel Terzo e nel Quarto mondo altre sfide attendevano i popoli liberi: la lotta alla fame, all’emarginazione, alle tirannie locali, al razzismo, in un ampio e condiviso impegno solidaristico verso le nazioni in via di sviluppo.

Nel 1990 impalpabilmente, ma irreversibilmente, iniziò la svolta presidenziale alla boa del quinto anno del mandato, col parlare di problemi interni anche nei viaggi all’estero (a partire da quello compiuto a Londra), malgrado le buone intenzioni palesate ai giornalisti sul silenzio che Cossiga avrebbe serbato al riguardo: criticò in particolare l’inefficienza dell’in­tervento statale sul nostro sistema economico, che aveva cagionato un ingente debito pubblico, a causa anche del sistema delle contrattazioni e degli automatismi salariali. Era così iniziata l’era delle cosiddette “esternazioni” (o “picconate” che dir si voglia). Nel discorso augurale a conclusione del 1990, sostenne la necessità – ferma restando la prima parte della Costituzione – di aggiornarla in aderenza all’evoluzione storico – politica intervenuta nell’arco di oltre 40 anni. L’inerzia nelle risposte rispetto alla percepita esigenza di riforme istituzionali, era – a suo avviso – la causa principale della disaffezione dei cittadini dalla cosa pubblica.

Il 15 marzo 1991 Cossiga rispose agli interrogativi postigli su Gladio, affermando – contro i detrattori dell’opposizione dì Sinistra – che coloro che ne avevano fatto parte erano dei “Patrioti”, per l’impegno profuso a salvaguardare la democrazia, e che lo stesso poteva affermarsi di alcuni appartenenti alla P2 da lui conosciuti, il che provocò gravi contrasti col Pds. II 9 giugno 1991, dopo la vittoria del referendum indetto da Mario Segni per un nuovo sistema di voto abolitivo delle preferenze, si aprì nei Partiti un dibattito per il varo di riforme istituzionali a tutto campo, con viva soddisfazione del presidente per “la vittoria della gente comune” contro lo strapotere della partitocrazia, il che – a suo avviso – poteva configurare anche la delegittimazione del Parlamento eletto con le vecchie regole.

Il 26 giugno indirizzò un messaggio alle Camere, rappresentando come prima istanza quella di recuperare la fiducia popolare nelle Istituzioni rappresentative iniziando dai Partiti, che erano venuti meno al loro compito di filtro tra rappresentanti e rappresentati, essendo divenuti i primi una classe dirigente autoreferenziale. Sotto il profilo normativo, la disfunzione più eclatante era data dalla proliferazione dei Decreti legge, al di fuori di ogni reale emergenza giustificativa, con l’aggravante della loro reiterazione innanzi alla colpevole inerzia del Parlamento. Quest’ultimo doveva riformarsi guardando al bene comune e non alla continua mediazione degli interessi delle varie forze politiche: in democrazia era il popolo e non altri “l’unico e vero sovrano reale”.

Anche in successive occasioni il suo sarebbe divenuto un continuo richiamo alla sovranità del Popolo, al di fuori della rappresentanza parlamentare, il che avrebbe potuto portare – inavvertitamente certo, ma non del tutto imprevedibilmente – ad una deriva autoritaria di tipo sudamericano, ad una Repubblica presidenziale più demagogica che liberaldemocratica. Una significativa trasversalità di consensi supportò la sua decisione di bocciare un decreto sulla liberalizzazione degli appalti nelle opere pubbliche, che avrebbe consentito alla mafia di mettere contemporaneamente le mani su quattro aree strategiche: politica, imprenditoria, burocrazia e mondo del lavoro: fu quella un’oasi di pace nel deserto di quello che sembrava uno scontro istituzionale a tutto campo. I fuochi delle tensioni, tuttavia, da una parte si spegnevano e da un’altra si accendevano: Achille Occhetto annunziò che il Pds era pronto a mettere in stato di accusa il capo dello Stato per aver violato la Costituzione, ma Giorgio Napolitano se ne dissociò e gli altri partiti fecero quadrato intorno al Quirinale. Abuso del potere di esternazione, occupazione di spazi televisivi, impedimento del normale funzionamento del Csm, indebite pressioni sul Governo per il caso Gladio e per la mancata proroga della Commissione Stragi: questi erano i principali capi di imputazione; ma ne venne assolto dal Tribunale dei ministri, che dichiarò la piena legittimità dell’organizzazione in esame.

Dopo le elezioni del 5 aprile il presidente, preso atto della litigiosità dei Partiti sulla formazione di un nuovo Governo, decise di lasciare il Colle innanzi tempo, ravvisando la necessità di un capo dello Stato con pieni poteri per poter guidare il Paese ed il 25 successivo mantenne la promessa. Da senatore a vita criticò la prospettata nuova riforma federalista, che confutò dal punto di vista politico, semantico e giuridico, sottolineandone in particolare le incongruità che ne sarebbero derivate, con l’accentuarsi delle disparità tra Nord e Sud, specialmente in materie socialmente sensibili quali la Sanità e l’Istruzione. Il Cossiga degli ultimi tempi crebbe nel suo euroscetticismo. “L’Europa, semplicemente non c’è – giunse ad affermare – e infatti nel suo non esserci, continua ad allargarsi a dismisura, inglobando tutto e il contrario di tutto”. Il crepuscolare pessimismo dello statista aveva peraltro finito con l’abbracciare anche altri organismi sovranazionali, di cui in precedenza non aveva mancato di esaltare l’utilità, come l’Onu e la Fao, liquidate sbrigativamente come organizzazioni buone “solo a spendere quattrini in favore dei propri dipendenti”. Quanto al diritto internazionale in genere, come regola delle relazioni tra gli Stati, arrivò a sostenere: “È la forza, non il diritto, a dare forma al mondo”. Il 7 maggio 2007, in uno degli ultimi interventi a carattere istituzionale, evidenziò che la nuova legge elettorale con l’indicazione del nominativo del presidente del Consiglio risul­tante dall’aggregazione vincente, aveva in realtà svuotato potere decisionale del capo dello Stato, il che era – a suo parere – incostituzionale. Difficile comprendere quanto egli stesso avesse creduto fino in fondo alle affermazioni ad effetto con cui negli ultimi tempi si era compiaciuto di sbalordire, di stupire o magari di scandalizzare chi lo leggeva.

La risposta la fornisce il conflitto interiore tra il primato della coscienza, che aveva consolidato attraverso la lettura approfondita dei suoi autori preferiti, ed una ragion di Stato che aveva traumaticamente percepito come disancorata da tale primato: la vecchiaia precoce che lo aveva incanutito e fatto ammalare, era già stata il segno premonitore che quella coscienza rettamente formata, lo avrebbe tormentato fino all’ultimo, gridando forti e chiare le proprie ragioni. Ragioni che riteniamo intellegibili, finanche nel disgusto scientemente suscitato nel lettore comune, attraverso le descrizioni di una politica ridotta a cinica menzogna, nel libro dal titolo tragicamente scanzonato di Fotti il potere, volto a disvelare i peggiori retroscena del potere medesimo in tutte le sue articolazio­ni. Metodo non nuovo il suo, dato che nella tragedia greca vi era lo scopo di suscitare un forte turbamento nel pubblico, al fine di attivare un processo di catarsi che lo portasse a riflettere sui valori autentici della vita e, quindi, a modificare comportamenti ad essi non conformi.

Le esequie, in forma assolutamente privata, furono celebrate nella sua Sassari, al termine di una vita piena di affanni, di incoerenze, di chiari e di scuri, poiché ebbe l’amaro destino di dover contraddire sovente i principi che lo avevano ispirato, trascendendo ogni parvenza di esteriore coerenza. Ma il suo sincero e profondo amore per la Patria libera e democratica, che andava salvaguardata da ogni nuovo attacco esterno o interno, che andava difesa ad ogni costo e con qualunque mezzo, escludeva di per sé ogni intendimento o tentativo eversivo delle libere istituzioni. Quell’ardente, immenso amor patrio, ne riscatta le incongruenze, le cadute di stile e le forzature, di cui fu egli stesso la prima vittima, nella contrapposizione irrisolta tra gli ideali ancorati alle radici più profonde della sua formazione giovanile, ed il disincantato scetticismo che lo colse progressivamente negli ultimi venti anni.

Aggiornato il 18 maggio 2020 alle ore 12:35