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Giovanni Leone (1908-2001) concretizzò il senso religioso dello Stato nell’impegno per la realizzazione di una giustizia corrispondente ad un severo imperativo della coscienza: onorare la cosa pubblica come un dovere da compiere al di fuori ed al di sopra di ogni egoistico interesse, per il conseguimento di quello assai più alto del bene comune. Dottore con lode in Giurisprudenza a 21 anni, ordinario di Diritto e Procedura penale a 27, tenente colonnello della Magistratura militare durante la Seconda guerra mondiale, intraprese il cursus honorum politico nel 1944 nella Dc, dalla quale venne eletto alla Costituente. Ininterrottamente deputato dal 1948 al 1963, senatore a vita dal 1967, venne più volte prescelto come presidente della Camera per la sua imparzialità signorile e bonaria, in grado di decongestionare situazioni di stallo, dovute alla litigiosità delle forze politiche. Fu autore di oltre cento pubblicazioni, tra le quali il celeberrimo Manuale di diritto processuale penale, il Trattato di diritto processuale penale i Lineamenti di diritto processuale penale.

Fu fautore della separazione del ruolo del pm da quello del giudice, e dell’indipendenza di quest’ultimo “da ingerenze politiche, da suggestioni sociali e culturali, dall’intuizione della verità a scapito di quella che risulta dagli atti”; indipendenza che andava altresì garantita all’Ordine giudiziario nei confronti dell’Esecutivo, dovendo ogni giudice dipendere solo dalla propria coscienza e dagli interessi superiori del Paese. Sensibilissimo all’esigenza di una dialettica processuale bilanciata, nel supremo interesse di una giustizia che fosse quanto più possibile oggettiva, Leone si impegnò costantemente per equilibrare il potere della difesa con quello dell’accusa. Occorreva in sede di giudizio circoscrivere al massimo la discrezionalità interpretativa dei magistrati, chiamati ad applicare e non a creare la legge, introducendo altresì il principio della loro responsabilità, dato che nel caso di loro errori o abusi di potere, erano gli unici a non dover rispondere del proprio operato.

In merito all’espiazione della pena, osservò che doveva aver luogo con grande senso di umanità, in modo che all’espiazione medesima seguisse il riscatto morale ed il reinserimento attivo e produttivo del reo nella società. Rifiutò di difendere cause incompatibili con il suo sentire, come quelle riguardanti i mafiosi e gli sfruttatori di prostitute, in una cornice etico – professionale che gli imponeva, per converso – di accettare le cause più difficili, difendendo gratuitamente gli imputati poveri, dei quali si accollava finanche le spese processuali. L’estrema indulgenza evidente in sede di esami, confermava la sua naturale vocazione ad essere ovunque, dalle Aule parlamentari come a quelle universitarie, una sorta di “Bonus pater familias”, per tutti coloro che, nel suo alto Magistero, potevano trovare un solido punto di riferimento culturale, morale e civile.

Nominato presidente della Repubblica il 24 dicembre 1971, nel suo primo messaggio auspicò una stabile pace sociale, che non significava rinunzia alle legittime aspirazioni degli interessati, ma ripudio del metodo della violenza e dell’intolleranza, avvalendosi di tutti gli strumenti legittimi offerti dall’ordinamento repubblicano. Occorreva accentuare la saldatura tra coscienza sociale ed istituzioni, compito fondamentale cui erano chiamati i Partiti politici e le grandi organizzazioni sociali. In merito al ruolo del Parlamento, affermò che, per un verso, non doveva ritenersi l’unico centro decisionale sui problemi del Paese, ma che, per altro verso, neanche poteva rendersi acriticamente sede di formale sanzione di decisioni prese altrove. La pace invocata all’interno, aveva una sua speculare proiezione in politica estera, vuoi per il costante appoggio dell’Italia alla crescita dei Paesi emergenti, vuoi per la sua convinta partecipazione all’Alleanza atlantica, rivelatasi affidabile strumento di distensione tra i popoli.

Particolarmente caro gli fu il rapporto con la stampa, la libertà della quale – affermò nel 1973 – costituiva “la più alta forma della libertà di pensiero”; ma la possibilità che i giornalisti avessero un respiro sempre maggiore di indipendenza, era strettamente correlata alla misura in cui avrebbero saputo rendersi consapevoli dell’alta responsabilità che si assumevano nell’esercitare il diritto-dovere di cronaca. Presidio insostituibile della libertà era il discernimento, realizzabile attraverso la cultura, settore a lui quant’altri mai caro nella coinvolgente familiarità cui soleva improntare il suo rapporto con gli allievi. I giovani non dovevano essere abbandonati con delle lauree disancorate dalla possibilità di un concreto inserimento nella società correlato al titolo conseguito, non nel senso meramente cartaceo, ma come punto di arrivo di una seria preparazione, necessaria per far fronte alle continue trasformazioni della realtà economico-sociale. A conclusione del 1973, anno segnato da profondi problemi ed inquietudini socio – economiche, il capo dello Stato affermò che era indilazionabile il varo di una giustizia fiscale più attenta ai percettori di reddito fisso; che occorreva regolamentare il diritto di sciopero; che urgeva altresì tutelare il prestigio delle forze dell’ordine.

La seconda fase del settennato fu segnata da nuove violenze dell’eversione nera e rossa, da calamità naturali e dallo Scandalo “Lockhed”, che avrebbe travolto ingiustamente lo stesso presidente della Repubblica. Una speciale incisività avrebbe potuto avere – ma così non fu – il suo messaggio inviato al Parlamento nel 1975, per richiamarne l’attenzione sulla crisi in cui verteva il Paese, indicando alcune misure atte a porvi rimedio, tra le quali la lotta alla corruzione ed al clientelismo. L’ultimo anno del settennato Leone fu segnato dall’assassinio dell’onorevole Aldo Moro, già suo assistente all’Università di Bari. Leone avrebbe voluto graziare la terrorista Paola Besuschio, gravemente ammalata e che non aveva ucciso nessuno, quale gesto simbolico in cambio della vita dell’onorevole Moro. Aveva pertanto deciso di firmare l’atto di clemenza il 9 maggio, giorno della prevista riunione della direzione della Dc, ma “a delitto consumato – dichiarerà Leone in un’intervista postuma – mi convinsi che i brigatisti fossero al corrente di quel che stava maturando e, non volendo la liberazione di Moro, avessero affrettato quella mattina l’assassinio”.

Sino all’ultimo aveva tenuto la “penna in mano” per firmare la domanda di grazia in cambio della vita dello Statista; ma erano prevalse logiche diverse dalla sua: “Moro – disse – è stato sacrificato sull’altare di una concezione dello Stato assoluto, di uno Stato etico, di uno Stato col marchio leviatano, che è poi la negazione assoluta dello Stato ad ispirazione liberal-cristiana”. Poche settimane dopo quell’uccisione, era iniziata un’orchestrata campagna per la morte civile di Leone, che portarono alle sue dimissioni dal Quirinale, con accuse tanto fantasiose quanto infamanti, che andavano dall’ abusivismo edilizio alla corruzione, alla frode fiscale, per finire con lo Scandalo Lockheed, campagna orchestrata a suo danno dal settimanale L’Espresso e dalla giornalista Camilla Cederna. Isolato dal suo stesso partito, Leone fu sacrificato all’insegna della politica della cosiddetta “solidarietà nazionale” con il Pci. “Politicamente – scrisse in seguito Leone – le mie dimissioni furono volute dal Pci e accettate, o subìte dalla Dc, che mi lasciò solo, mi abbandonò.

Sono convinto che Zaccagnini agì in quella occasione in maniera ostile e che, alla base del suo atteggiamento, oltre alla malcelata ostilità politica di sempre, ci fu anche il risentimento per il forte contrasto che avevamo avuto nella conduzione di tutta la vicenda Moro”. Non si riprese mai più dopo la mazzata politica a lui inferta con gli strumenti della diffamazione. Enrico Berlinguer aveva deciso – disse – che era arrivata l’ora del compromesso storico, e aveva bisogno del posto libero al Quirinale. Il 15 giugno 1978 dunque, con sei mesi di anticipo rispetto alla naturale scadenza del mandato, il presidente scelse di accomiatarsi dal Paese con un nobilissimo messaggio, da par suo, dicendo di essersi risolto a compiere il grave passo delle dimissioni, ritenendo “assolutamente preminente, su quello personale, l’interesse delle istituzioni”. La campagna diffamatoria aveva ormai intaccato la fiducia delle forze politiche sulla sua persona e, pertanto, disse che la sua scelta non poteva essere diversa.

Venti anni dopo in Senato, alla sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, furono organizzati i festeggiamenti per i novant’anni dell’ex capo dello Stato ed in tale circostanza, i radicali Emma Bonino e Marco Pannella, che avevano contribuito all’ingiusta attribuzione dello scandalo Lockheed, gli chiesero scusa con espressioni sincere e non convenzionali. Il 9 novembre 2001 rendeva l’anima al Signore “un uomo onesto e corretto” come ebbe a definirlo il presidente del Senato Marcello Pera. La figura di Giovanni Leone costituisce un’esemplare immagine di santità laica e non solo, per aver Egli anteposto socraticamente il bene comune, finanche al diritto naturale di autodifesa.

Aggiornato il 07 maggio 2020 alle ore 17:37