Cesare Merzagora, il gigante di passaggio al Colle

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Cesare Merzagora (Milano, 9 novembre 1898 – Roma, 1° maggio 1991), pur nella fugace esperienza della supplenza al Quirinale, dovuta alla malattia del presidente Antonio Segni, merita una doverosa menzione non solo per il ruolo svolto con tanta autorevolezza e discrezione nell’ambito di un periodo assai delicato per la storia dell’Italia repubblicana, ma anche per l’assoluta indipendenza di pensiero e l’alto senso dello Stato che potevano ricordare, per certi aspetti, l’ altro Inquilino “provvisorio” del Colle: Enrico De Nicola. Merzagora, tenente decorato al valor militare nella Prima guerra mondiale, nel periodo 1920-1938 prestò servizio alla Banca commerciale italiana, poi ebbe incarichi manageriali alla Pirelli, al Credito italiano, all’Alfa Romeo ed alla Bastogi. Avvenuta la Liberazione, fu chiamato a presiedere la Commissione centrale economica del Comitato di liberazione nazionale per l’Alta Italia. Dopo la guerra fu membro della Consulta, della Giunta esecutiva della Confindustria e dell’Iri; dal 1947 al 1949 come ministro del Commercio estero avviò una politica valutaria di scambi internazionali, che dettero un grande impulso alla nostre importazioni ed incoraggiarono il rientro in Italia dei capitali “riparati” all’estero. Tutto ciò favorì la ripresa del nostro sistema produttivo, con la discesa dei prezzi e dell’inflazione e la ricostituzione di scorte valutarie. Era fautore di una “economia sociale di mercato”, nel cui ambito avrebbe voluto portare avanti, se fosse asceso a Palazzo Chigi, un programma comprendente sussidi ai disoccupati, edilizia popolare, requisizione di aree edificabili, rilancio della Cassa per il Mezzogiorno, grandi infrastrutture per la viabilità ed il turismo, pensione sociale per i disagiati, incremento degli scambi con l’Europa dell’Est, agevolazioni per gli investimenti stranieri, sgravi fiscali sugli utili aziendali reinvestiti nelle imprese.

Dal 1948 fu costantemente eletto in Parlamento come indipendente nelle file della Democrazia cristiana, sino al 1963, allorché Segni lo nominò senatore a vita. Del Senato fu il presidente più “longevo”, dal 1953 al 1967, riscuotendo unanime stima anche dall’opposizione, che in lui riconobbe un leale garante, per la sua correttezza ed imparzialità. Vigile tutore delle prerogative del Parlamento contro ogni intromissione esterna ed il crescente tracimare dei partiti, amava ripetere: “È il Parlamento che deve restare in ogni circostanza, la suprema e determinante assise del Paese, ed è il Parlamento che deve pretendere che nessuna decisione venga presa al di fuori o al di sopra di esso”  Oltre che oratore di prim’ordine, fu anche brillante articolista nel corso della sua vita intensa e poliedrica negli interessi, che spaziavano dall’alta cucina, alla composizione ed esecuzione musicale (violoncellista), dalla scrittura di opere teatrali alla scultura, dalla ideazione di medaglie, a quella di gioielli e ritratti. Collaborò con Il Giornale di Indro Montanelli come con la Repubblica di Eugenio Scalfari, che ne ammirava la competenza e l’assoluta autonomia di pensiero; nonché – anzi in primis – con il Corriere della Sera, ed in ogni suo articolo come estremo riguardo ai potenziali lettori di ogni livello culturale, Merzagora volle premettervi delle brevi sintesi esplicative.

Il rapporto con Giovanni Gronchi non fu mai sereno, né avrebbe potuto esserlo, per un vizio di origine che datava alla competizione elettorale (aprile 1955) per la nomina del successore di Luigi Einaudi. In tale circostanza, Merzagora, candidato ufficiale della Dc di Amintore Fanfani, aveva avuto assicurazioni da Gronchi circa il suo sincero e leale appoggio che avrebbe dovuto far confluire su di lui il consenso delle Sinistre; ma –come è noto – a causa dei franchi tiratori della Dc, fu il secondo ad essere eletto, con la conseguente Excusatio non petita, accusatio manifesta rivolta all’interlocutore giubilato “di essere stato travolto dagli eventi”. Il diretto interessato gli rispose educatamente che “doveva credergli”. La contrapposizione tra i due era destinata a protrarsi, anche in occasione delle visite di Stato all’estero, durante le quali Gronchi non volle mai lasciare la delega delle funzioni alla seconda carica dello Stato. Il 15 aprile 1956 Merzagora pertanto gli scrisse riassumendo il pensiero dei presidenti dei Gruppi parlamentari in merito alla questione:” la sovranità nazionale non si può esercitare dall’estero e durante l’assenza del capo dello Stato, possono accadere in Patria fatti così straordinari e tali, da esigere che le funzioni presidenziali siano sempre esercitabili nella loro interezza”.

La preoccupazione manifestata dalla stampa – puntualizzò Merzagora – che se il capo dello Stato all’estero avesse avuto un supplente in Patria si sarebbe trovato diminuito dei suoi poteri, era del tutto infondata, in quanto non teneva conto della distinzione esistente tra titolarità di poteri e loro esercizio “Il presidente della Repubblica all’estero – proseguì l’interessato – è titolare di tutti i poteri del capo dello Stato e conserva l’esercizio di quelli necessari all’adempimento della sua missione”. Né la supplenza era un atto fiduciario come la delega, ma traeva il suo fondamento direttamente nel precetto costituzionale: “il supplente – era ancora Merzagora ad esprimersi – subentra pertanto al titolare nell’esercizio di tutti i poteri di quest’ultimo, né è possibile apporre preventivamente una qualunque limitazione ai poteri stessi. Sono le circostanze di fatto che determinano, in concreto, l’estensione dei poteri del supplente”.

Gronchi rispose alla missiva in questione, indirizzatagli con il “tu”, attraverso un più formale e distaccato “lei”, ritenendo doveroso chiarire il proprio punto di vista, onde “evitare – scrisse – che possano insorgere equivoci, tanto più spiacevoli, quanto atti a recare nocumento e pregiudizio al prestigio delle istituzioni della Repubblica”. Un’altra occasione di conflittualità , nel caso di specie “latente”, si realizzò il 16 giugno 1957, quando il capo dello Stato, in relazione alle indicazioni ricevute da alcuni gruppi parlamentari nelle consultazioni per la ricostituzione di una maggioranza di centro, chiese al presidente del Senato Merzagora, “al quale – recitava la nota del Quirinale relativa al preincarico – la Costituzione conferisce una posizione particolare, di accertare quali concrete possibilità esistano per costituire un Governo che sia in grado di riscuotere la fiducia delle Camere e del Paese”.

Il designato accettò l’incarico, ma nei limiti dell’accertamento oggettivo delle possibilità accennate, e declinando al contempo di essere lui medesimo disponibile a guidare il nuovo Governo. Evidentemente aveva fiutato, dopo qualche non digerito boccone amaro, che la dignità costituzionale evocata a supporto del mandato conferitogli, poteva nascondere una vera e propria polpetta avvelenata: per la guida di Palazzo Chigi, ipotizzabile di assai breve durata data l’instabilità politica del momento, avrebbe dovuto lasciare quella ben più solida del Senato, sovente dissonante dal Quirinale. L’ennesima dimostrazione di amor patrio, sarebbe stata in realtà un regalo a Gronchi, suo storico avversario. Il conflitto più eclatante trai due, scoppiò il 29 febbraio 1960, in seguito alla controversia insorta per delle dichiarazioni rese da Merzagora in difesa delle prerogative del Parlamento ed avverso la “degenerazione morale e politica” della partitocrazia, con delle critiche rivolte anche all’indirizzo di alcuni organi dello Stato ed enti, nel mezzo di una crisi di Governo, risoltasi con le dimissioni del presidente del Consiglio Segni.

Nei fatti, il 5 aprile 1960 Gronchi aveva scritto una lettera “di fuoco” a Merzagora, esprimendogli le sue riserve di forma e di sostanza: di forma, in quanto le dimissioni erano state l’epilogo dell’esecrato discorso, considerato improvvido in quanto pronunziato nel corso di una crisi ministeriale e nell’imminenza delle consultazioni del capo dello Stato. Le riserve di sostanza, riguardavano il fatto che la crisi, pur non preceduta da un formale voto di sfiducia, non poteva ritenersi – come sostenuto da Merzagora – di tipo extraparlamentare, in quanto con l’uscita dei liberali dalla compagine ministeriale, era comunque venuta meno la maggioranza che sosteneva l’Esecutivo. La crisi dunque, secondo il capo dello Stato, era da considerarsi sempre “parlamentare” anche in mancanza di un voto ad hoc dell’Assemblea, tutte le volte che, comunque, veniva a mancare la maggioranza di supporto al Governo. In ultimo Gronchi stigmatizzò il discorso in questione per le censure rivolte a fenomeni di malcostume, di corruzione e di immoralità, senza che peraltro vi fosse stata una precisa denunzia nominativa in merito a fatti e persone, con la conseguenza di speculazioni scandalistiche della stampa e disorientamento dell’opinione pubblica, portata così a ritenere che il marcio investisse le istituzioni nel loro insieme, e non marginali e circoscritti accadimenti.

Il 21 aprile Merzagora, rientrato a Roma, rispose all’interlocutore manifestando stupore per l’aver ricevuto una così diffusa critica al proprio discorso, ed entrando nello specifico dei rilievi indirizzatigli, precisò di doverne rispondere solo al Senato, il quale lo aveva tanto apprezzato da indurlo, dopo 4 settimane, a recedere dalle dimissioni rassegnate. Quanto alla rilevata inopportunità di esprimere giudizi dallo scranno di presidente del Senato, Merzagora rese “pan per focaccia” al mittente: “E anche Tu, del resto – gli scrisse – innovando alla linea dei Tuoi predecessori, non hai esitato a manifestare più volte, e anche polemicamente, i Tuoi personali convincimenti e le Tue preoccupazioni, allorquando hai ritenuto in coscienza di doverlo fare”.

Circa il concetto di crisi extraparlamentare, ribadì il suo convincimento, tanto più che il governo Segni, essendo nato senza una maggioranza precostituita, era minoritario sin dall’inizio, ed il suo rinvio in Parlamento avrebbe pertanto consentito semplificazione della situazione politica e la conseguente assunzione di responsabilità da parte di ciascuno. La Costituzione aveva inteso con una ben precisa norma disciplinare l’istituto della fiducia o della sfiducia ai Governi per cui – soggiunse il presidente del Senato – “Non può l’averla sempre disattesa, costituire argomento per attestarne l’inapplicabilità o la superfluità”. Quanto alla “pestilenza” del malcostume da lui rilevata nel discorso incriminato, non si pentì affatto di aver sollevato pubblicamente il problema, essendo il silenzio in quel campo “irresponsabile e colposo”; mentre per quanto riguardava le mancate esplicitazioni, il dovere di controllare le voci e di denunziare i responsabili alla Magistratura, spettava alle competenti autorità di Governo “chiamate a sorvegliare società ed enti privati e pubblici”. Un altro amaro calice dovette bere Merzagora nel 1964, in seguito all’accusa gratuitamente mossagli dalla sinistra di aver segretamente covato disegni golpisti durante la nota crisi estiva del governo Aldo Moro. Vero è, al contrario, che nel caldo luglio del 1964 lo zelo del Giovanni de Lorenzo si era spinto a schedare uomini politici di primo piano, tra i quali lo stesso Merzagora, senza nulla trovare su quell’uomo quanto altri mai retto ed adamantino, alieno da intrallazzi e da giochi di potere.

Nel mese di agosto, come è noto, in seguito all’infortunio cerebrale occorso al presidente Segni, Merzagora nella sua veste di seconda carica dello Stato assunse ad interim le funzioni di capo dello Stato. Nei quattro mesi alla presidenza della Repubblica (peraltro guidata da Palazzo Giustiniani ad ulteriore segno di rispetto per il titolare e quale lodevole scrupolo istituzionale), il “supplente” cercò di razionalizzare le funzioni di tale apparato, indirizzandosi a ridurne i costi di gestione, in un’ottica di sobrietà che riteneva essere venuta meno durante la presidenza Gronchi, in quanto il dilatarsi della “visibilità” del diretto interessato, aveva cagionato l’espansione delle spese funzionali al nuovo modo di interpretare il ruolo presidenziale. Durante il periodo della supplenza, Merzagora mantenne volutamente un basso profilo, per cui nelle rassegne stampa relative all’arco di tempo agosto-dicembre 1964, non appaiono tracce di interventi significativi di alcun genere da parte sua, a conferma del puntuale e leale rispetto dell’impegno morale assunto spontaneamente nei confronti dell’ammalato. Nel 1967 si dimise – e definitivamente – dalla presidenza di Palazzo Madama, in seguito al discorso che aveva pronunciato la settimana prima alla cerimonia della consegna delle insegne ai 25 nuovi Cavalieri del Lavoro, alla presenza del capo dello Stato Giuseppe Saragat. In tale circostanza formulò interrogativi che spaziavano dal terrorismo altoatesino al banditismo sardo; dal finanziamento dei partiti, all’indebitamento spropositato della finanza locale; dalle disfunzioni dell’assistenza previdenziale, all’invadenza dello Stato ai danni dell’iniziativa privata; dal dissesto radiotelevisivo, ai problemi della libertà di stampa; dalla mortificazione del merito in favore delle appartenenze partitiche, alle industrie improduttive foraggiate dallo Stato.

Insomma, una denunzia a tutto campo che ebbe la punta critica più alta avverso la prospettata istituzione delle Regioni, la cui legge istitutiva era al vaglio del Parlamento in quel periodo. I comunisti – in tale circostanza – avevano chiesto a gran voce le sue dimissioni ritenendo essere venuta meno la sua imparzialità istituzionale ed egli, nonostante la solidarietà riscossa dai democristiani e dai liberali, fu irremovibile nel farsi da parte. Tornò ad occuparsi del settore economico alle Assicurazioni generali, di cui divenne presidente nel 1968, ed ivi rimase per 11 anni, acquisendo contemporaneamente – seppure per un brevissimo periodo – anche la presidenza della Montedison, dalla quale repentinamente si dimise denunziando l’esistenza di una contabilità segreta (i cosiddetti “fondi neri”, vale a dire i finanziamenti occulti ai partiti).

Nella sua visione politica, mirante alla migliore realizzazione del pubblico bene, rientrava la convinzione, già manifestata sin dai tempi dell’appartenenza alla Confindustria, della necessità di aprire la compagine governativa anche a persone non organiche ai partiti, ma dotate di competenze tecniche di alto livello, come gli industriali. Osservava al riguardo: “Si dice che l’Italia sia povera di uomini. È un’eresia: in tutti i settori della vita economica vi sono persone di assoluto prim’ordine; naturalmente occorre conoscerle per apprezzarle, perché essendo appunto di prim’ordine, non si preoccupano di mettersi in vista”.

In occasione del quarantennale della Costituzione Merzagora realizzò la sua ultima incursione nella politica pubblica, declinando l’invito rivoltogli dal presidente del Senato Giovanni Spadolini, ad intervenire alla cerimonia inaugurale di un’antica fontana restaurata a spese del Senato e donata alla città di Roma nella menzionata ricorrenza. Nel telegramma declinatorio scrisse con enfasi assai polemica: “Non mi dispiace essere forzatamente assente alla cerimonia dell’inaugurazione, perché se fossi presente, non potrei mancare di lanciare l’augurio che le limpide acque offerte dall’Amministrazione del Senato servano soprattutto a ripulire non soltanto la città, ma i partiti politici dalle sudicerie amministrative che tutti deplorano, ma che tutti subiscono con colposa tolleranza”. Il 1°maggio 1991 si spense all’età di 93 anni l’indomito uomo politico, la cui opera non effimera può a buon diritto considerarsi una delle pagine più alte della storia d’Italia, della quale lo scorso anno furono celebrati i 150° dalla conseguita Unità, momento essenziale di un Risorgimento che non si esaurì in quell’evento, ma è continuato come tensione ideale dello spirito ad una sempre maggiore coesione degli italiani tutti. Di siffatta tensione ideale fu latore Cesare Merzagora, per cui lasciare che la coltre del tempo ne occulti la vivezza della memoria, significherebbe aver occultato con la sua immagine, anche lo scrigno dei valori preziosi – ed oggi rari – di cui seppe rendersi coerente interprete, quali il senso dello Stato, l’amore per il pubblico bene, il personale disinteresse, l’impegno costante contro gli accomodamenti e gli ammiccamenti della bassa politica, l’esaltazione della centralità di un Parlamento realmente eletto dal Popolo e, quindi, espressione irrinunciabile della sovranità mediata del Popolo medesimo. Non un fantasma del passato siamo in lui chiamati ad evocare, ma un custode della dignità della politica, intesa nel suo significato autentico e non deformato, di servizio generoso e disinteressato al bene comune.

Aggiornato il 12 aprile 2020 alle ore 20:47