Untore per decreto

Quando mi viene chiesto se ho paura di qualcosa rispondo che sono, in ordine sparso, avvocato, liberale, canoista e milanista, e concludo, con una punta di malcelata vanità, che se avessi paura avrei fatto scelte diverse.

Poi tocca confrontarsi con la realtà, in particolare – per quanto mi riguarda - con quella dei tribunali. Ed allora può essere utile descrivere la settimana di un avvocato penalista itinerante.

Ieri mi sono trovato al Tribunale di Milano, a fare udienza nel mentre lunari figure coperte da gialli scafandri “sanificavano” il tribunale. Domani sarò impegnato in un’altra udienza in Lombardia, e venerdì in Emilia Romagna; “zone gialle”, secondo la definizione ministeriale, ma io ancora non so se i processi si celebreranno o meno.

Continuo a non avere paura, beninteso, ma non posso non notare che l’incapacità di chi ci governa ad assumere una qualsivoglia decisione che non sia dettata dalla stretta emergenza mi impone condotte che paiono la pubblicità di quello che non si deve fare: aerei, treni, tribunali, luoghi affollati, carceri, e chi più ne ha più ne metta.

Perché, vedete, i tribunali, nei quali cancellieri ricevono gli atti con i guanti in lattice ed il giudice sta assiso ad almeno tre metri dagli altri, mentre fuori da aule e cancellerie il resto del modo (tutto il resto del mondo: avvocati, forze dell’ordine, testimoni, imputati, persone offese, ecc. ecc.) sta ammassato come in un girone dantesco, costituiscono la plastica rappresentazione di una visione ottusamente stato-centrica, nella quale appare evidente come l’unica vera preoccupazione della nostrana burocrazia sia, non quella di rendere un servizio alla cittadinanza ma, unicamente, di preservare se stessa.

Poi, come in una vecchia canzone dell’indimenticato Giorgio Faletti, “si prende giù e ci si va lo stesso” [per tribunali], ma con la consapevolezza che la vostra inettitudine è ben più pericolosa del coronavirus.

Aggiornato il 04 marzo 2020 alle ore 17:27