Il crollo dei 5 Stelle è ineluttabile e irreversibile

Il moralista ama a tal punto la morale, che ne ha due: una per sé e una per gli altri. Non può applicare a se stesso i rigidi precetti che gravano sugli altri, essendo fatto della stessa pasta di tutti gli uomini, dei quali condivide debolezze e contraddizioni. Il suo doppiopesismo può ingannare chi non lo conosce, ma giammai chi ha modo di frequentarlo. Ciò che vale per i singoli individui, vale anche per le strutture associative e in primis per i partiti politici. È sufficiente, per esempio, che gli strenui oppositori della “casta” siano messi alla prova dei fatti, per capire che prebende, benefits e privilegi seducono costoro, non meno che gli avversari politici (ogni riferimento alla signora Elisabetta Trenta è puramente casuale).

La virtù non abita da una parte sola e il territorio della corruttela si estende e restringe nella stessa misura, nella quale aumentano e diminuiscono le occasioni dell’organo pubblico di monetizzare il suo “nulla osta” amministrativo, a prescindere dal colore politico. Il Pci menava gran vanto della supposta “superiorità“ morale dei comunisti, dimenticando che nell’Unione Sovietica (proprio laddove i comunisti erano al potere) la corruzione proliferava in sommo grado, giacché l’esercizio di qualsivoglia diritto individuale era sottoposto al benestare del commissario politico di turno (ottima occasione per chiedere una contropartita). Sicché il partito dei moralisti non può avere lunga vita, per l’intrinseca contraddizione che si cela nel supporre che la virtù morale appartenga a una fazione e sia estranea a quella opposta. Insomma, la sovrapposizione fra morale e politica non può ispirare programmi saldi e durevoli, proprio perché non è fondata, per definizione, su chiare discriminanti di cultura politica.

Non credo si debbano spendere molte parole per significare che la ragione sociale dei 5 Stelle è radicata nella pretesa della palingenesi moralistica. Il Movimento è nato sulla base della “predicazione” istrionica di Beppe Grillo, che fustigava i corrotti della “casta” al potere e annunciava l’“alba dorata” della “decrescita felice”. Da ultimo, anche Giuseppe Conte (detto Giuseppi) ha imboccato la strada del nunzio “Elevato”, profetizzando nientepopodimeno che l’epifania di un “nuovo umanesimo”, per effetto – si capisce – dei preziosi servigi del suo Governo. Gli avversari politici sono stati dileggiati e additati al pubblico ludibrio come mafiosi e/o corrotti; qualsivoglia avviso di garanzia è divenuto un marchio indelebile, sufficiente per determinare il perpetuo ostracismo; è stata approvata una normativa anticorruzione da Stato di polizia, con annesso “fine processo mai”. Si è sorvolato, però, com’è d’uso fra i moralisti, sulle “marachelle” del sindaco di Roma o sul curriculum, per dir così, arricchito (o taroccato?) di Conte, nonché sulle sue discutibili consulenze e la singolare carriera accademica.

Gli italiani hanno capito; tardi, ma hanno capito; e hanno cominciato a presentare il conto (vedi Umbria). Tutti i fattori che hanno determinato la rapida ascesa dei 5 Stelle si volgono ora in elementi di debolezza, sicché il crollo dei 5 Stelle, certificato da tutti i sondaggi e ufficializzato dalla rinuncia alla competizione elettorale in Emilia-Romagna, è inarrestabile e nessun Luigi Di Maio lo potrà impedire.

Il “genio” di Casaleggio aveva partorito l’idea fenomenale della “democrazia diretta”. La suggestione di “partecipare” con un semplice click al processo decisionale della cosa pubblica ha sedotto soprattutto le fasce giovanili, più use al web. Ma l’illusione che le scelte siano determinate dal basso e per incanto siano quelle “giuste” dura lo spazio di un mattino. Nel momento in cui il web si istituzionalizza in piattaforma monopolistica (Rousseau o qualunque altra), è facile accorgersi che il potere decisionale appartiene ai suoi manovratori, non già al popolo indistinto degli utenti. L’opacità della piattaforma autoreferenziale, autogarantita e autocontrollata, è l’esatto opposto della trasparenza invocata dall’Elevato Predicatore.

Ma c’è di più. La scelta dei candidati, affidata al fantomatico web, ha partorito l’ascesa di molti “nullafacenti”. E non poteva andare diversamente, perché la piattaforma oltre che opaca, è anche cieca. Non può intuire la “qualità” dell’uomo, dal momento che il suo algoritmo legge i dati “quantitativi”. La selezione della classe dirigente per questa strana via ha sfornato una pletora di incompetenti. Venditori di gelati e liquidatori di agenzie assicurative hanno prodotto danni incalcolabili al nostro Paese. Mai, in verità, è stato tentato un esperimento similare in alcuna parte del mondo, se non in Cina durante la cosiddetta “rivoluzione culturale”. Mao Tse-tung mise i fucili in mano ai bambini, affinché i “puri” prendessero il posto dei “corrotti”. Inutile aggiungere che i successori del Grande Timoniere si affrettarono a cambiare indirizzo, consapevoli che i posti di comando non competono al perfetto ignorante; allo stesso modo il popolo italiano si affretta a mandare a casa i 5 Stelle, provvisti in sommo grado della spocchia dei “puri” epuratori, ma del tutto privi di qualsivoglia cultura politica.

L’unico barlume di programma politico espresso dai 5 Stelle consiste nell’aprioristico rifiuto dei termovalorizzatori, dei gasdotti, delle ricerche petrolifere, della Tav, del Tap, dei Giochi Olimpici, di tutte le grandi opere etc.. Con i loro veti, i 5 stelle hanno sistematicamente impedito l’ammodernamento delle nostre infrastrutture, cagionando, direttamente o indirettamente, danni irreparabili. Il crollo del Ponte Morandi a Genova poteva essere evitato, se si fosse provveduto a costruire la variante; il completamento del Mose a Venezia avrebbe impedito la recentissima sciagura, ma la logica del sospetto, cara ai 5 Stelle, ha rallentato e impastoiato le procedure burocratiche; Roma è divenuta un immondezzaio, perché Virginia Raggi preferisce coltivare l’utopia dei rifiuti urbani che d’incanto diventano fiori profumati, anziché costruire il termovalorizzatore. Ma nella logica perversa dell’uno vale uno, congiunta all’utopia, questo è un titolo di merito, tanto che il Padre fondatore, Beppe Grillo, auspica la ricandidatura della Raggi.

L’occasionale ed effimero successo dei 5 Stelle nelle ultime elezioni politiche si è basato, in grande misura, sulla mirabolante promessa dell’abolizione della povertà tramite il reddito di cittadinanza. Invero, sottraendo risorse al mercato e alle imprese produttive, la povertà non può che aumentare; l’assistenzialismo giammai ha generato reddito, tanto più quando è congegnato in modo da incentivare la pigrizia e l’ignavia dell’assistito. E comunque quella promessa, per quanto insensata, ammaliò larghe fasce popolari soprattutto meridionali, sia a sinistra che a destra. Oggi tuttavia il carattere “trasversale” del Movimento non è più un punto di forza. Fin quando ci si limita a protestare, si può raccogliere nel malcontento popolare, sia a destra che a sinistra; ma quando si deve fare una scelta politica di governo, si perde necessariamente, da una parte o dall’altra, quel consenso contingente e condizionato, raccolto con promesse ingannevoli. Se poi si cambia addirittura alleato di governo, passando con grande disinvoltura dall’uno all’altro polo, l’emorragia elettorale diventa incontenibile.

La caduta rovinosa e inarrestabile dei 5 Stelle apre grandi spazi alle forze politiche, con solide radici culturali e retroterra storico. La Destra Liberale può offrire al popolo dei delusi prospettive, ideali e programmi concreti, rendendo palese che la libera iniziativa privata, in un quadro di certezze giuridiche, non insidiate dalla politica del sospetto, è l’unica via dello sviluppo economico e sociale.

Aggiornato il 20 novembre 2019 alle ore 10:59