Il teorema Mafia Capitale non ha retto. Anche la Corte di Cassazione ha infatti demolito il tentativo non solo della Procura di Roma ma anche del professionismo dell’antimafia e del giustizialismo giacobino di dimostrare che qualsiasi fenomeno delinquenziale o di corruzione equivale all’associazione di stampo mafioso.
Ribaltando la sentenza di appello, la Corte suprema ha stabilito che l’organizzazione a delinquere capeggiata dall’ex Nar Massimo Carminati e dall'ex ras delle Cooperative, Salvatore Buzzi, non è stata associazione di stampo mafioso ma associazione a delinquere “semplice”, dando così ragione alla sentenza di primo grado che a luglio di due anni fa negava alla Procura il riconoscimento di una cosca romana. Già allora le pressioni mediatiche sulle indagini non la spuntarono sul dibattimento. Con la pronuncia dell’ultimo grado di giudizio che ha appena riqualificato i reati riferibili all’articolo 416bis del Codice penale, in associazione a delinquere semplice, le pene per i condannati restano severissime. E in carcere andranno nove condannati tra cui l’ex presidente dell’Aula del Campidoglio Mirko Coratti ed ex dirigenti capitolini. Nessuno sconto di pena dunque che giustifichi commenti ironici sul mutato riconoscimento di fattispecie. Non è questo il punto. I colpevoli sono comunque assicurati ad un’esecuzione della pena adeguata ai reati commessi. Per alcuni è stata applicata la legge “Spazzacorrotti”, di recente approvazione, che introduce “misure per il contrasto dei reati contro la Pubblica amministrazione e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”.
Il disconoscimento dell’associazione mafiosa per il sodalizio criminale di Buzzi e Carminati da parte della Consulta, però, oltre alla riqualificazione del reato con relative pene e all’annullamento di alcuni risarcimenti alle parti civili, tra cui associazioni antimafia, non è, come qualcuno ha ironizzato, una mera definizione di fattispecie di reato ma rappresenta un importante argine a ciò che la trasformazione di una fattispecie in un’altra comporterebbe per tutti quei cittadini, investiti da un procedimento giudiziario penale e responsabili di reati di diversa natura, che si vedessero attribuire un bel 416 bis con il ricorso ai medesimi strumenti giudiziari investigativi e processuali propri della legislazione speciale del “doppio binario”. L’obiettivo è di trasformare la corruzione e la delinquenza in un’emergenza equivalente al terrorismo ed alla mafia.
Malaffare sì, dunque, gravissimo, così come delinquenza e corruzione, infiltratisi ovunque. Ma non mafia. E soprattutto no al tentativo di contrassegnare l’intero procedimento giudiziario di Mafia Capitale, non a caso segnato da subito da un’inaudita pressione mediatica, dalle aspettative e dal sodalizio tra uffici investigativi, giornalisti in prima linea, alcuni magistrati e settori della politica, col segno di un’esemplarità anche responsabile di delegittimazione di Roma su cui la sindaca Virginia Raggi ha incardinato la sua campagna elettorale.
A subire un significativo arresto con la sentenza della Cassazione è quindi il disegno di estendere un modello di giustizia militarizzata ai reati contro la Pubblica amministrazione tramite la loro equiparazione a quelli mafiosi. Le condanne, che si confermano pesantissime, sono ora conformi alla reale fattispecie dei reati commessi e non verdetti esemplari funzionali ad estendere al maggior numero di reati possibili la legislazione speciale e una tipologia di processo di cui Mafia Capitale avrebbe dovuto esser la prova generale, ed i cui metodi improntati al risparmio, alla celerità e a discutibili esigenze securitarie (ricordate la videoconferenza per gli imputati, molti dei quali incensurati?) sono stati, a suo tempo, annullati dal Tribunale medesimo. La Procura di Roma è stata sconfessata e almeno per ora la sentenza definitiva ha salvaguardato un principio di civiltà giuridica. Esiste un giudice a Roma.
Aggiornato il 23 ottobre 2019 alle ore 18:07