Conte-Juncker: la cena è servita

Nel complicato rapporto tra la Unione europea e l’Italia, il tintinnar di sciabole ha ceduto il passo alla diplomazia gastronomica. Sabato sera si sono visti a cena, a Bruxelles, il premier Giuseppe Conte, accompagnato dal ministro dell’Economia Giovanni Tria, e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, affiancato dai due guardiani dei conti pubblici europei Pierre Moscovici e Valdis Dombrovskis.

Lo scopo dell’incontro era di trovare una ricomposizione tra la Commissione e Roma dopo la bocciatura europea della bozza di Bilancio presentata dal Governo giallo-blu per il 2019. Era chiaro che la strada sarebbe stata in salita e sperare in un accordo al primo colpo non sarebbe stato oggettivamente realistico. Roma resta ancorata ai punti qualificanti della manovra che sono l’introduzione del Reddito di cittadinanza e la riforma della Legge Fornero; Bruxelles intende impedire al nostro Paese, con le buone o con le cattive, di fare eccessivo Deficit. Sebbene si sia lavorato soltanto sugli aspetti di contorno, alla fine della serata, i protagonisti della cena si sono detti soddisfatti per la ripresa del dialogo.

Ora, per quanto possa essere suggestiva l’ipotesi di un Armageddon tra la nuova Italia, dalla quale riemergono le voci di coloro che il professore Giulio Sapelli collocherebbe nel “popolo degli abissi”, e gli odiati eurocrati, bisogna essere pragmatici e chiedersi: il sistema socio-economico italiano se la può permettere una lotta all’ultimo sangue? Ci piacerebbe rispondere di sì, ma molto dipende da quanto l’alleato statunitense intenda scommettere sull’Italia, usando l’azione del Governo giallo-blu alla stregua di un cuneo da piazzare nel fianco dei non più affidabili partner franco-tedeschi. Probabilmente è proprio il timore che, una volta spezzata la corda, Roma finisca dritta tra le braccia di Donald Trump ad aver suggerito ai vertici della Commissione un approccio meno ruvido e più possibilista all’intesa con il Governo italiano. D’altro canto, sullo sfondo resta lo spettro delle prossime elezioni europee che, per l’establishment garante degli attuali assetti di potere, potrebbe trasformarsi in un bagno di sangue nei consensi. Perciò, a conti fatti, Juncker e soci sia accontenterebbero di un abbassamento della previsione di Deficit dall’odierno 2,4 per cento, previsto in manovra, al 2 per cento. Tanto per salvare la faccia perché, considerando la riduzione della stima di crescita di due decimali dal 1,5 per cento previsto al 1,3 per cento, per il Governo giallo-blu si tratterebbe di una sforbiciata alla spesa di circa 6 miliardi di euro. Poco più di un gesto simbolico che basterebbe agli eurocrati per poter dire di aver piegato la resistenza dell’asse del male sovranista/populista annidato a Roma. Il fatto è, però, che gli azionisti della maggioranza giallo-blu non intendono rinunciare a un centesimo di quelli appostati in Bilancio per varare i provvedimenti-bandiera del loro programma politico.

Come se ne esce? Matteo Salvini e Luigi Di Maio credono in coscienza che le riforme cardine della manovra finanziaria siano giuste e possano portare la ripresa economica? Allora siano conseguenti. Il che significa avere il coraggio di compiere scelte anche dolorose. I due leader non pretendano la botte piena e la moglie ubriaca, se vogliono davvero le misure per il sostegno alla povertà e la cancellazione della Fornero siano pronti a tagliare altrove la spesa pubblica. In particolare, il cosiddetto “Bonus” Renzi che costa all’anno 9,5 miliardi di euro. Posto che tutto non si può avere, la soluzione per uscire dall’impasse con Bruxelles è il taglio drastico della misura voluta da Matteo Renzi, per di più che i tanto sbandierati 80 euro mensili ai redditi bassi non hanno prodotto, come si sperava, l’incremento dei consumi interni. Se non la si vuole abolire integralmente, un risparmio significativo è possibile restringendo le fasce dei destinatari del beneficio. Il tetto dei 24.600 euro di reddito annuale complessivo per l’ottenimento del Bonus è insostenibile, operando una riduzione sul requisito di almeno il 10 per cento si otterrebbe un risparmio prossimo all’importo del taglio che Bruxelles richiede per dare il via libera alla manovra.

È evidente che una tale decisione non farà felici molti italiani, soprattutto quelli appartenenti al ceto medio impiegatizio, e darà ad un Partito Democratico in coma insperato ossigeno nella polemica politica. Ma Di Maio e Salvini devono cominciare a provare sulla loro pelle la differenza che corre tra l’essere dei capipopolo o assurgere a statisti. I primi si preoccupano esclusivamente delle cose che procurano consenso, i secondi si sacrificano per il bene del Paese, anche a prezzo dell’impopolarità. Ad un’amputazione della spesa tanto consistente potrebbe accompagnarsi la revisione del meccanismo di attribuzione del reddito di cittadinanza, da disciplinare con i “collegati”, sulla scorta della proposta leghista di trasformare i 780 euro previsti, da misura di sostegno agli indigenti in contributo alle imprese per la formazione e l’assunzione di nuova forza lavoro. Per Juncker e compagni, a quel punto, sarebbe difficile rifiutare la richiesta italiana di tenere fuori dal computo del Deficit il capitolo di spesa per il riassetto idrogeologico dei territori colpiti dalle recenti catastrofi naturali, che ha un ammontare di circa 4 miliardi di euro. Su tali basi di compromesso la manovra potrebbe essere rimodulata e la sfida con Bruxelles si concluderebbe con un dignitoso pareggio, senza vinti né vincitori.

Adesso, dopo aver mostrato i muscoli, da entrambe le parti occorre buonsenso. Sapranno i protagonisti di questo bizzarro duello rusticano essere ragionevoli oltre che palestrati? Bella domanda.

Aggiornato il 26 novembre 2018 alle ore 12:35