Mi dimetto! Forse...

“Vinco se perdo”, dicevo qualche giorno fa parlando di Matteo Renzi. Dopo la disfatta epocale del Partito Democratico, lo rettificherei in “Vinco comunque”. Da dimissionario “incumbent” (denominazione che si riferisce al presidente uscente statunitense che corre per un secondo mandato), Renzi interpreta all’italiana il temperamento di Donald Trump. Però, dato che lui discende da Machiavelli e non da una dynasty di palazzinari, i suoi “deux faux pas en arrière” assomigliano a quelli di Francois Hollande che vide il suo tramonto in Emmanuel Macron, dicendosi in cuor suo pronto a tornare alla prima occasione utile malgrado avesse quasi azzerato il suo Partito socialista francese. Con Hollande, Renzi ha non poche assonanze. Innanzitutto la testardaggine e le corte vedute, imbevuto fino al midollo della sua essenza politica al profumo di mainstream, che trova legittimazione a livello mondiale nel buonismo onusiano del politically correct, per cui l’accoglienza agli immigrati è un totem da onorare sempre e comunque, così come lo è il dogma delle virtù taumaturgiche della globalizzazione di finanza e consumi.

Ora, anziché chiedere scusa (come gli ha suggerito anche Alessandro Di Battista) per essere stato mollato da ben più della metà dei suoi elettori che lo avevano votato nel 2014 (elezioni europee) e in occasione del referendum del 2016, lui si rifà al suo mentore mediceo per vincere a ogni costo. Come? Dando e contemporaneamente lasciando in sospeso le sue dimissioni. Un trapezista senza rete del Circo Barnum non avrebbe saputo far meglio. Più lui oscilla pericolosamente cantando gioiosamente sopra il precipizio come farebbe la Vispa Teresa sull’altalena, più si fa temerario nel promettere la sua stessa fine ingloriosa a tutti coloro che lo spingono. Infatti, che cosa vuol dire giocare il ruolo di un brigante borbonico sorvegliando con il trombone carico lo stretto valico che porta alla sua successione? Come mai parla e sproloquia di tutto, senza dire, per esempio, la più lapalissiana delle verità? Ovvero che è lui e soltanto lui ad aver portato il Pd allo stesso livello della Lega di Matteo Salvini, a causa della pessima gestione dei flussi immigratori irregolari e della mancanza di sicurezza nei grandi e medi centri urbani italiani e della povertà che ha colpito a morte il suo ex proletariato?

Semplice. Grazie al suo fido scudiero Ettore Rosato, che gli ha confezionato su misura un’orrida legge elettorale (per cui chi è arrivato ultimo nei collegi uninominali nondimeno si vede eletto comunque nel proporzionale grazie alle multicandidature!), lui e la sua pattuglia di irriducibili si blindano in Camera e Senato, facendo da ago della bilancia in tutti i possibili accordi di potere per la formazione del futuro Governo. Del resto, un segretario-travicello avrebbe immediatamente chiuso accordi con Luigi Di Maio, o fatto da donatore di sangue al centrodestra con la solita transumanza di parlamentari, stavolta in senso opposto rispetto alla mossa di Alfano-Verdini nella legislatura precedente! Perché i suoi tre “No” vorrebbero astutamente spingere Lega e M5S a un’alleanza che, dal suo punto di vista (identico a quello che lo ha visto volutamente perdere le elezioni per il sindaco di Roma), naufragherebbe in poco tempo nel caos e nell’ostilità totale di Bruxelles. Del resto, l’altro niet a un’alleanza con il centrodestra suona sia come un rifiuto definitivo a un Nazareno 2, al quale attribuisce gran parte delle sue sfortune personali; sia come il detonatore per far implodere gli avversari responsabili del “cappotto” elettorale a centro-nord. Quindi: attenti al Lupo!

Aggiornato il 07 marzo 2018 alle ore 08:16