Cari concittadini (l’antipolitica, Prodi e la destra liberale)

Sono molto perplesso per lo spettacolo, che abbiamo sotto gli occhi, dato dal fenomeno che si conviene indicare come antipolitica. Perplesso, ma non sorpreso. Perché dovrei essere sorpreso, se da anni i maggiori giornali, le case editrici e i network mediatici, quasi tutti di proprietà dei grandi gruppi industriali e finanziari, fanno a gara nel delegittimare la politica come luogo di soluzione e composizione di problemi e interessi, mentre legioni di giornalisti, intellettuali e showgirl, indicano, nei giornali, nei talk-show e nei dibattiti, gli uomini politici come appartenenti in generale ad una casta di nullafacenti privilegiati?

Inoltre magistratura, grande finanza ed organismi sovranazionali tendono a determinare di fatto, con la loro azione, molte evoluzioni di natura squisitamente politica, espropriandone la politica propriamente detta, ma senza avere una vera legittimazione democratica ottenuta attraverso libere elezioni e tutto questo in una misura mai conosciuta prima. L’azione politica, così indebolita e delegittimata, diviene debole e compromessa, incapace di risolvere problemi, aggregare consenso ed attirare le energie e le persone migliori, che anzi tendono a tenersene lontane, per non mettere a repentaglio reputazioni faticosamente costruite col lavoro, mentre lasciano campo libero a coloro che non rischiano di perdere la faccia, perché non l’hanno mai avuta. La politica, in assenza di programmi validi e chiari su cui dividersi legittimamente, degenera così nello scandalismo, in attacchi personali, in aggressioni che sfruttano spesso in maniera strumentale le decisioni delle tecnostrutture (la valutazione di una agenzia di rating, una direttiva Ue, un avviso di garanzia) non per affrontare un problema, ma per demolire una persona o un partito. È una riflessione di carattere generale questa, che riguarda tanto la sinistra che la destra e principalmente il nostro Paese, ma non solo il nostro Paese, se solo si pensa al grado di degenerazione della democrazia americana, dove le aggressioni personali sembrano essere divenute la regola e non mi riferisco solo all’attualità, sotto gli occhi di tutti, ma ad un processo in atto da lungo tempo.

Se la funesta prassi “investigativa” che affligge gli Usa avesse scoperto affari di cuore di Clinton, prima della sua elezione e quelli di Gary Hart dopo, sarebbe probabilmente stato quest’ultimo a divenire presidente e candidato per un secondo mandato e questo senza nessun riguardo per la validità dei programmi e la capacità degli uomini, mentre il complesso gioco di selezione delle corti di giustizia americane, dalla base al supremo vertice, giocò, verosimilmente, un qualche ruolo nel determinare la vittoria di Bush su Al Gore, in quel penoso gioco “tecnico” di conteggio e riconteggio finale di schede elettorali in piccole contee. Io chiamo il fenomeno “casualcrazia” o democrazia casuale, perché avvenimenti che nulla hanno a che fare con i programmi o le competenze finiscono per determinare, incredibilmente amplificati dal circuito mediatico, gli avvenimenti politici, anche i più gravi ed in una maniera così imprevedibile (anche se spesso funzionale a poteri forti) da risultare casuale.

Queste riflessioni, che vado facendo da tempo, mi tornano alla mente leggendo l’ultimo libro/intervista di Romano Prodi, “il Piano Inclinato”, perché vi è esposta una visione di sinistra occidentale che non lascia spazio a polemiche personali o strumentali, ma è tutta concentrata su programmi ed idee ed esposta da uno che i meccanismi economici di una società evoluta li conosce veramente. Non concordo con molte delle conclusioni e delle prospettive delineate, d’altro canto io appartengo a un’altra famiglia politica liberale e di destra, tuttavia riconosco uno sforzo apprezzabile di raggiungere una maggiore uguaglianza senza sacrificare la libertà, in cui si riconosce una tradizione democratico-cristiana che (pur appartenendo Prodi alla sinistra Dc) non fu solo Fanfani o Dossetti, ma anche Sturzo, De Gasperi, Pella, ma soprattutto si coglie la nostalgia di una politica resa di nuovo credibile e capace di ritrovare il suo primato, che è poi quello della democrazia, democrazia che in Prodi non è vista mai come un impaccio ad un procedere più spedito.

Il problema però riguarda anche noi di destra, perché non è vero che una minor presenza della politica si risolva automaticamente in una maggiore libertà individuale, perché, nel mondo d’oggi, tanto libertà individuale che proprietà privata sono in realtà poste a rischio anche da tecnostrutture, che talvolta possono essere contrastate solo da un potere politico democratico rappresentativo dei cittadini. Se, ad esempio, un organo sovranazionale di regolamentazione bancaria, decide che la stabilità del sistema abbisogna di una drastica diminuzione delle sofferenze e di colpo le banche italiane non praticano più una tolleranza elastica sui pagamenti o peggio cedono i crediti a società estere specializzate nel recupero, una famiglia può ritrovarsi senza casa molto più facilmente che nel passato e solo un legittimo e credibile potere politico, può porvi un argine, mentre le reti satellitari che ci monitorano in ogni spostamento od azione, hanno mille usi positivi, ma non sono certo uno strumento di difesa della privacy e della libertà individuale.

I cittadini che, spesso purtroppo con ragione, disistimano gli uomini politici e si sentono attratti dal mondo dell’antipolitica (quelli che dicono tanto son tutti uguali), dovrebbero riflettere sul fatto che è vero che la loro protesta e il loro voto non contano come dovrebbero, però qualcosa pur sempre contano, mentre la loro possibilità di incidere sulle autorità sovranazionali o sulle società multinazionali è nulla, è zero. Dobbiamo perciò stare attenti a non confondere sovranisti e populisti, che non necessariamente coincidono sempre. Nel cosiddetto “sovranismo” c’è, al di là degli estremismi, l’intuizione di una verità che non va sottaciuta e cioè che noi siamo stati capaci di costruire una democrazia rappresentativa solo all’interno degli stati-nazione, dove popoli uniti da storia, cultura, lingua e religione comuni, si dividono e scelgono sulla base di opzioni politiche contrapposte, mentre se si passa a livelli sovranazionali o la democrazia non viene praticata affatto o le divisioni tendono a diventare etniche, con grave distorsione della democrazia stessa. Questo non vuol dire affatto, per venire a noi, che si debba bloccare la costruzione europea.

Perché in realtà l’Europa non funziona in quanto non è Europa, ma solo una costruzione sovranazionale, con estesi poteri burocratici, in cui però le decisioni non sono frutto di una reale democrazia partecipativa estesa a tutti, greci come tedeschi, perché le istituzioni realmente federali come il Parlamento non hanno veri poteri, mentre esiste di fatto un “direttorio” degli Stati dominato da quelli più forti. È come se l’Italia, anziché una Nazione, fosse divenuta una semplice unione doganale e monetaria, con la sopravvivenza dei vecchi Stati, dei loro vizi e dei loro debiti pubblici, con un Parlamento solo simbolico e una guida di diritto e di fatto delle regioni più forti. Solo il Nord ne avrebbe tratto qualche vantaggio, il Sud nulla, avendo perso la sovranità senza guadagnare l’integrazione. Ed è quello che rischia questa Europa nel rapporto tra gli Stati membri. E così stanno emergendo voci per uscire dall’euro o addirittura dall’Unione, dimenticando che noi europei continentali non siamo come i britannici e cioè parte di una comunità transoceanica di 450 milioni di uomini di cultura anglosassone, come loro sono per lingua, tradizioni e interessi. I paesi europei, inclusa la Germania, sono troppo piccoli, per tutelarsi nel mondo di oggi, questa è la pura realtà.

L’Europa ci serve veramente, ma non questa Europa. Se la Ue è perenne teatro di acidi e futili scontri nazionali, è perché manca una solidarietà che non abbiamo saputo costruire, avendo rinunciato a parlare di Patria europea. Occorre un Epos europeo, per un’Unione di cui abbiamo bisogno e che potrà esistere solo con sentimenti di appartenenza forti, non dissimili, paradossalmente, proprio a quelli di coloro che guardano al passato. Non abbiamo bisogno di meno Europa, ma di una Europa federale più democratica. E qui Prodi e destra liberale non sono diversi, mentre lo sono e lo restano sui diritti individuali (anche se, probabilmente, più che con Prodi la differenza è con molti “prodiani”) che per noi sono gli unici veri diritti collettivi, perché realmente di tutti e per tutti, mentre le azioni governative, pur necessarie, sono sempre frutto di una visione particolare, magari momentaneamente maggioritaria, ma non di tutti. Lo Stato “tutti noi” è una pericolosa astrazione che si è prestata a degenerazioni autoritarie e totalitarie (specie se si stacca dal concetto di Nazione) mentre ciò che realmente esiste, il governo, è comunque portatore di una visione di parte, che non può essere imposta con strumenti coattivi fino a cambiare radicalmente la società sottostante, che si tratti di una fiscalità tale da minare la proprietà privata o dell’imposizione di quote rosa.

La sinistra democratica di un paese democratico, cerca di contemperare la libertà con l’eguaglianza, ma quando è costretta a scegliere sceglie l’uguaglianza, la destra, se costretta, sceglie la libertà. La differenza di fondo è sempre questa. Una sinistra alla Prodi sarebbe una squadra migliore, che farebbe giocare meglio anche la squadra di destra, ma un dato essenziale comunque resta, senza il recupero della politica i cittadini rimangono senza possibilità di incidere, senza difesa contro i poteri forti e non vale la pena di perdere questi diritti e passare all’antipolitica, solo per protestare contro parlamentari eletti che guadagnano al mese quello che guadagna un medio calciatore di serie A al giorno. Spero che gli Italiani ci riflettano.

Aggiornato il 21 giugno 2017 alle ore 22:10