Caso Ragusa: ennesimo mistero italiano

I lettori de “L’Opinione” sanno bene che raramente le mie idee sono consonanti con quelle dell’ottimo Claudio Romiti. Tuttavia, negli ultimi tempi, mi ritrovo spesso ad essere d’accordo con lui: sarà l’atmosfera del Natale.

A proposito dell’articolo che Claudio ieri ha pubblicato sul caso Logli non posso dirgli altro che: bravo! Finalmente una parola fuori dal coro su un caso giudiziario a dir poco agghiacciante. Si tratta della condanna a vent’anni di reclusione comminata ad Antonio Logli per l’omicidio e l’occultamento del cadavere di sua moglie Roberta Ragusa, scomparsa nella notte tra il 12 e 13 gennaio del 2012 dal comune di San Giuliano Terme dove la coppia risiedeva. Soltanto vent’anni, perché la difesa del Logli ha scelto il cosiddetto rito abbreviato che consente all’imputato, in caso di condanna, di beneficiare dello sconto di un terzo della pena. Ciò significa che se non fosse stato per “l’abbreviato” il Lolli si sarebbe beccato trent’anni. Il tutto in assenza non soltanto delle prova, oltre ogni ragionevole dubbio, della sua responsabilità nel crimine contestatogli ma anche del crimine medesimo, visto che il cadavere della povera signora Roberta non è mai stato ritrovato. In ipotesi, la “povera Roberta” potrebbe essere viva e vegeta. Improbabile ma non impossibile, comunque auspicabile.

Nel frattempo, un giudice ha ritenuto sufficienti gli indizi presentati dall’accusa per segnare definitivamente la vita di un individuo. Non essendo un esperto di diritto penale faccio appello a chi mastica la materia perché ci spieghi perbene come sia possibile condannare un cittadino a una pena, per giunta tanto severa, per un reato che non si sa se abbia commesso dal momento che non si ha alcuna certezza che il reato ci sia stato. Ho letto qualche sintesi giornalistica che ha riportato il contenuto di alcune testimonianze ritenute decisive, del tipo di quella della cognata dell’imputato la quale, a proposito del carattere irascibile e vendicativo del Logli, ha riferito le circostanze di un loro litigio a cui sarebbe seguita, per ritorsione, la rigatura della propria vettura che la testimone attribuisce al Logli ma senza averne la prova.

Domanda: basta avere la faccia di uno che cova vendette per essere accusato e condannato per omicidio? Siamo di nuovo alla fisiognomica di Cesare Lombroso? Nel processo è entrata anche la questione della relazione extraconiugale intrattenuta dal Logli, come movente dell’uccisione della Ragusa. L’imputato, è stato sostenuto, essendo stato colto in fallo dalla moglie non avrebbe avuto altra scelta che sbarazzarsene: non del legame adulterino, ma della consorte. Quindi sul banco degli accusati è finita anche la scappatella con la baby-sitter, che poi è un classico. Andiamo bene! Logli sarà pure quella schifezza di persona che amici e parenti della moglie si sono peritati di descrivere, ma basta questo per fare di lui un assassino conclamato in assenza di cadavere? Scordiamoci la presunzione d’innocenza, ma siamo oltre la presunzione di colpevolezza: si può essere giudicati responsabili di una morte senza il morto. È una follia! E qualcosa del genere deve averla pensata anche la giudice Elsa Iadaresta che ha pronunciato la sentenza di condanna perché, pur riconoscendolo responsabile dei reati ascrittigli, non ha concesso l’applicazione della misura cautelare in carcere richiesta dal pubblico ministero. Logli, quindi, resta libero. Ad eccezione di un obbligo di pernottamento nel comune di residenza, il condannato può continuare a vivere pacificamente la sua vita in attesa che gli altri gradi di giudizio ne chiariscano definitivamente la posizione.

C’è qualcosa che non va: se è colpevole di un fatto tanto efferato dovrebbe stare in galera perché la collettività deve essere protetta da un individuo riconosciuto pericoloso. Invece è libero, cioè non è pericoloso e può continuare a vivere al fianco dei suoi figli. È normale? “È colpevole ma non siamo certi che sia colpevole, perciò non ce la sentiamo di sbatterlo in galera”, questa sembra essere la sostanza salomonica della sentenza. È la solita, frusta giustizia “all’italiana”, bellezza!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:52