
È buio a Berlino. È buio nella Breitscheidplatz, la piazza dello shopping e del mercatino di Natale dove si è conclusa la corsa omicida del Tir jihadista. 12 morti e 48 feriti: è la contabilità dell’ennesima strage d’innocenti. Ma è buio anche ad Ankara dove una mano assassina, nel nome di Allah il misericordioso, ha freddato l’ambasciatore russo in Turchia. Gli attentatori: giovane pakistano di anni 23, entrato da falso profugo in Germania attraverso la rotta balcanica, il boia di Berlino; ventiduenne, diplomato all’Accademia di Polizia, il sicario di Ankara. Entrambi estremisti islamici.
Così questo 2016 si chiude com’è iniziato: nel sangue. E con qualche utile insegnamento. Cosa ci dicono Berlino e Ankara? Che la guerra al terrore islamico è ancora lunga. Altro dovrà succedere e molto si dovrà soffrire prima di riuscire ad avere ragione di questa peste del nostro tempo. Perciò non bisogna abbassare la guardia. È guerra. Anche di simboli. Non è indifferente che sotto le ruote del Tir assassino sia finito stritolato, insieme alle vite delle persone, anche un alberello addobbato di decorazioni del Natale. Quell’albero siamo noi: la storia, i ricordi d’infanzia più belli e più felici, la fede in un Dio di amore e di pace. Ma anche il corpo straziato del diplomatico russo, lasciato annegare nel suo sangue al cospetto di quelle istantanee fotografiche di un’altra Europa, la grande madre Russia, siamo noi: cultura, arte, bellezza. Il sicario di Ankara, nel mentre puntava l’arma contro l’ambasciatore Andrei Karlov, ha urlato: “Noi moriamo ad Aleppo, tu qui”. Messaggio chiaro che vale anche per le vittime di Berlino. E per tutti noi. Come non prenderne atto? E come non sentire irrefrenabile il bisogno di rispondere: “Ok, ricevuto! Presto avrete la nostra risposta”? Perché non si può restare fermi a guardare, bisogna reagire. Come? Operando su due piani distinti ma convergenti: quello dell’impiego della forza e quello culturale.
È in corso in Medio Oriente e in Nord Africa una campagna bellica che mira a sradicare il fenomeno jihadista in modo definitivo. È uno sforzo che prevede il sacrificio di molte vite e lo spargimento di tanto sangue, talvolta innocente. È uno sporco lavoro che bisogna pur fare se non si vuole correre il rischio di vedere crescere un mostro che ha lo scopo dichiarato di farci fuori tutti. Violenza chiama violenza. Non l’abbiamo iniziata noi occidentali questa carneficina ma, visto che siamo in ballo, dobbiamo cercare di tirarcene fuori da vincenti. C’è poi da dispiegare tutte le energie possibili sul fronte culturale. I nostri nemici ne fanno una questione di scontro di civiltà. I buonisti di professione dicono che non è così. Ma se qualcuno ti sfida ad un incontro di boxe non puoi presentarti in tutù. Vogliono azzerare la nostra identità facendo terra bruciata dei nostri simboli più eloquenti e rappresentativi? Non dobbiamo permetterglielo. Lo diciamo oggi che siamo alle prese, in vista della ricorrenza del Natale, con la classica settimana dell’imbecillità multiculturalista. È da un po’ di anni che nelle nostre scuole vige il “politicamente corretto”, allora via i simboli della festa, niente canzoncine inneggianti alla natività, niente presepi e niente più Gesù nelle poesie dei bambini: tutto per non offendere la sensibilità religiosa dei non-cristiani, che poi sarebbero i musulmani, visto che non risulta che ebrei, buddisti, induisti e animisti si siano mai sentiti offesi dalle rappresentazioni della mangiatoia col bue e l’asinello.
Per questi insopportabili buonisti, negatori della nostra identità profonda una sola parola ultimativa: piantatela! Non è il momento di scherzare con le nostre tradizioni. Non volete farlo per voi stessi e per i vostri figli? Fatelo allora per la memoria di quei poveri disgraziati che, a Berlino, a Parigi, a Bruxelles e a Dacca, quest’anno non avranno il problema di come trascorrere le vacanza natalizie perché sono morti per mano di qualcuno che ha decretato: il mio dio è migliore del tuo.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:00