
Marina. Si chiamava Marina la donna venuta dall’Ucraina e strappata alla vita dai colpi d’ascia di un marito geloso. Era il 9 gennaio di quest’anno. Una giornata fredda a Licola, frazione del comune di Giugliano in Campania. Un agglomerato di vecchie case dalle quali la speranza ha preso congedo da troppo tempo. È da lì che se n’è andata Marina Havryluyuk di anni 30, faticosamente vissuti. Accanto al suo corpo straziato c’era anche quello della piccola Katia, 4 anni, figlia della coppia, vittima e coimputata in quell’assurdo processo di sommaria giustizia maschile che un marito-padrone, in pochi attimi, ha celebrato e concluso facendosi insieme giudice e carnefice dell’altrui destino. Marina non è stata la sola vittima di una violenza domestica tanto feroce. E insensata.
Parliamo dell’Italia. Secondo i dati Istat del giugno 2015 6 milioni e 788mila sono state le donne che hanno subìto, nel corso della loro vita, una violenza fisica o sessuale; 152 quelle uccise nel 2014 e oltre 155 nel 2015. Nel primo semestre del 2016, più di 60 donne sono cadute sotto i colpi mortali del partner o di un ex. È anche per tutte loro che oggi si celebra la “Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne”. Facciamo che sia loro, delle vittime, e non che si trasformi nella festa dei “soliti noti”. Anzi, delle “solite note”. Il pericolo è di assistere all’ennesima ipocrita parata di coloro che, sotto le insegne del “politicamente corretto”, sfruttino il dramma reale e concreto dei femminicidi e della violenza sulle donne per costruire carriere e fortune personali. Facciamo che dopo quello nefasto dei “professionisti dell’antimafia” non sorga un nuovo professionismo di genere. Facciamo che il “25 novembre” non sostituisca, nell’immaginario femminile, un bolso “8 marzo” a cui le donne per prime non credono più. Non si avverte il bisogno di inventare nuovi stereotipi o coniare stilemi di maggiore impatto al solo scopo di spianare la strada a “carriere in rosa”, altrimenti improponibili. Evitiamo che i tavoli per le questioni di genere divengano cimiteri degli elefanti. Quali risultati tangibili questi luoghi ingessati dalle meccaniche della burocrazia possono vantare? Sono riusciti a colmare il gap del divario di genere nella sfera pubblica? Non sarebbe meglio rivedere il meccanismo politico che predilige il metodo paternalistico della cooptazione invece che quello della scelta di merito? La democrazia paritaria si raggiunge se agìta dal basso e fa a meno delle operazioni di facciata. E poi diamoci un taglio con la bulimia da progetti di genere da cui tutti i livelli della Pubblica amministrazione vengono inondati. Quanto servono realmente la causa e quanto invece si risolvono in un modo diverso di spillare denaro allo Stato? Se per vincere i bandi gara pubblici ci si accontenta di rimestare sullo stereotipo della donna sempre e solo vittima e non ci si occupa del suo ruolo di protagonista agente in tutte le dinamiche sociali, allora quei soldi non sono spesi bene.
Si vuole fare davvero qualcosa di significativo per dare un senso alle tante vite spezzate di donne? Perché allora non dare seguito a iniziative come quella proposta dall’Associazione Toponomastica femminile “Ancora frutti da una vita strappata”? Come ci ha spiegato Giuliana Cacciapuoti, referente per la Campania dell’associazione, sarebbe importante piantare un albero per ogni vita di donna spezzata. Non un qualsiasi arbusto ornamentale, ma un albero da frutto perché se i simboli contano non si potrebbe immaginare modo migliore per ricordare a tutti che da una morte di una donna, specie se ingiusta e violenta, possa ancora nascere la vita. Che bello sarebbe se un frondoso pesco dai fiori rosa sorgesse lì, vicino al mare di Licola, dove è stato strappato quel fiore di nome Marina. Una donna semplice. Una donna memorabile.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:03