
Il terremoto colpisce ancora quei luoghi di straordinaria bellezza adagiati tra i Monti Sibillini. Questa volta, sotto le macerie, niente morti: solo qualche ferito. Dovremmo sentirci alleviati dall’angoscia della disperante conta delle vittime, eppure non lo siamo del tutto. Perché?
Ieri l’altro sono crollate le case e le chiese, le mura cittadine e i monumenti storici, la terra si è spalancata inghiottendo, in pochi istanti, la geografia fisica e spirituale delle comunità incastonate nel cuore dell’Italia. Si dirà: sono solo pietre. Ma la perdita non è così banale. Basta guardare in volto quella brava gente per rendersi conto della realtà: c’è un lutto da elaborare che la fa somigliare a statuine dolenti di un presepe violato. Su quelle facce è stampata la paura di chi ha visto fermarsi il tempo. Nessuno molla, nessuno vuole andare via. Vogliono restare lì, a guardia delle macerie come alla veglia funebre per un defunto. I soccorritori devono sudare sette camicie per convincerli a salire sugli autobus che li porteranno lontano, al sicuro. Neppure la minaccia di trascorrere le ore notturne al freddo dei ricoveri temporanei li spaventa: meglio soffrire piuttosto che distaccarsi da quei resti inanimati.
Il messaggio è chiaro: si può abitare perfino la propria solitudine quando si resta presenti a se stessi. Devono arrivare le ingiunzioni delle pubbliche autorità per farli desistere dal restare. Ma è proprio quel coraggio che si fa ostinazione a impedire che lo spirito della comunità si distacchi dal suo corpo e che Norcia, Camerino, Ussita e tutti gli altri borghi colpiti a morte divengano spettri vaganti nel nulla. Quelle pietre crollate ci parlano, sono testimoni di verità: tutte le identità si fondono in un unicum con i beni, singolarmente e collettivamente, posseduti. Non è questione di Catasto o di Sovrintendenze. La “roba” è parte integrante della persona. La sua perdita è amputazione del senso stesso dell’esistenza. Se davvero si volesse fare qualcosa di utile per le vittime di questo ennesimo lancio di dadi della dea Fortuna, bisognerebbe spendersi con tutte le forze per restituire ciò che è stato loro sottratto. Per quanto potranno essere confortevoli i soggiorni approntati per l’emergenza, saranno pur sempre vissuti come esili forzati dai quali desiderare di fuggire al più presto per fare ritorno alle pietre cadute. Lì dove si estende quello speciale orizzonte di senso che dà scopo e dignità a ogni singola vita. Può darsi che la Natura ce l’abbia avuta con noi, che abbia voluto impartirci una lezione per il male che le abbiamo arrecato abusando di lei, maltrattandola, stravolgendola senza troppi scrupoli. Può darsi che, per una bizzarra legge del contrappasso, Madre-Natura si sia voluta riprendere un po’ di ciò che le era stato tolto. Sebbene sia duro accettare un verdetto tanto implacabile, non possiamo farci granché: ci sono eventi contro i quali tutte le astuzie di questo mondo non possono nulla. Possiamo, però, mostrarci per quelli che siamo: teste dure che non si arrendono.
Se il nostro Governo, che solitamente mostra di avere la sensibilità di un elefante nella cristalliera, non tenta di sfruttare la vetrina del dolore per esporre la propria mercanzia propagandistica e comprende che tutta l’Italia, azzoppata dallo scacco subìto, è pronta a dare il meglio di sé in una gigantesca opera di “restitutio in integrum”, si scriverà una pagina edificante di unità della Nazione. E sarà bello vedere risorgere, negli stessi luoghi, le case da abitare, le chiese in cui raccogliersi e pregare, i monumenti da ammirare e le cinte murarie da cui sentirsi protetti. Perché i muri servono, materiali o metaforici che siano. Ci sono indispensabili anche se della loro avulsione dal nostro quotidiano ci si accorge sempre troppo tardi, quando una mano invisibile, umana o divina, li ha fatti crollare.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:00