
C’è un topos che imperversa da un quarto di secolo in Italia: che se le cose non vanno bene, se lo Stato è un carrozzone inefficiente e dispendioso, se l’economia langue, la causa ne sarebbe la disonestà dei politici (versione maggioritaria), o anche dei pubblici funzionari (versione di minoranza): è un tormentone che corre lungo tutta la storia della Seconda Repubblica.
Il perché sia così “gettonato” lo si deve probabilmente ad una diffusa opinione che essendo i governanti (in senso stretto o lato) spesso disonesti, sarebbe tale vizio la causa dei guai che ci affliggono. Opinione che da un lato ha qualche ragione di verità, perché sicuramente la corruzione rappresenta un costo: onde, per ridurlo, è bene fare pulizia.
Ma è affetta da un doppio errore. Da una parte questo è, per come dire, logico; dall’altra va contro la convinzione, sostenuta da tanti pensatori, che tra corruzione ed andamento delle cose, in particolare economiche, non ci sia un rapporto, o che comunque sia secondario e di poco rilievo.
Cominciamo dal primo: l’attività (e l’esistenza) umana si svolge in tanti ambiti: la politica, il diritto, la morale, l’economia, l’arte e così via. Tali attività sono autonome e irriducibili l’una all’altra. Ognuna ha un proprio fine, proprie condizioni specifiche e propri criteri di valutazione. Un’attività può essere giudicata (in termini economici) come utile o non utile; un’azione (sotto l’aspetto giuridico) lecita o illecita; sotto quello morale onesta o disonesta; un’opera d’arte bella o brutta; un atto politico congruo o meno alla protezione (e affermazione) del gruppo sociale (Stato, ma anche altro). Ne deriva che essendo l’una all’altra irriducibili esistono attività che anche valutabili positivamente, sotto il profilo economico o politico, non lo sono per quello giuridico o morale, o viceversa.
A fare un esempio, è normale considerare la donazione di tutti i propri beni fatta da San Francesco ai poveri encomiabile moralmente, ma pessima sotto quello economico. Non solo, sostengono molti economisti, perché il giovane Francesco non aveva prodotto nulla di quello che regalava essendo il frutto dell’attività mercantile del padre; ma anche perché se tutti ne seguissimo l’esempio (di regalare senza produrre) finiremo tutti in miseria perché regalare si può solo quello che qualcuno ha prodotto; mentre essenziale per ridurre la scarsità dei beni e soddisfare così i bisogni dei meno abbienti è produrli.
Quanto all’opinione in merito di tanti pensatori, è superfluo ricordare quella di Croce, riassumentesi nel giudizio che non esiste una politica morale, ma semmai esiste una morale della politica (e del politico), ch’è una morale essenzialmente legata al ruolo (di protezione della comunità) dell’uomo di governo. Tuttavia dato che, correntemente, si pensa soprattutto ai riflessi economici dell’onestà, è opportuno ricordare, fra i tanti, Mandeville, il quale nella “Favola delle api” faceva notare che erano i vizi a far prosperare la società; Adam Smith, il quale legava il funzionamento dell’economia non all’onestà, ma all’interesse; Pareto che scrisse un gustoso libretto per sbertucciare puritani e bacchettoni i quali confondevano virtù pubblica e virtù privata, con particolare insistenza sulla temperanza sessuale. Nel solco di una tradizione di pensiero che va da Montesquieu a Machiavelli Pareto infatti lo negava; e, portava tanti esempi per provare che statisti e generali (e popoli) vittoriosi fossero “scostumati”: da Cesare ad Alessandro Magno, da Carlo Magno a Napoleone, dai greci agli arabi; ne concludeva che “i rapporti del virtuosismo coll’utilità sociale non risultano dalle sue qualità, risultano dai sentimenti che, fra altre manifestazioni, hanno quella del virtuosismo... se... questi sentimenti sono profondi, tali che spingano gli uomini a sacrificarsi... per un ideale che va al di sopra dei piaceri del momento, essi possono essere utili, estremamente utili alla società, e caratterizzano un popolo forte, prospero, vittorioso”. E se si applica questo giudizio di Pareto al “pensiero unico”, al “politicamente corretto” al “buonismo legalitario” si ha che, sotto le buone intenzioni, queste, che sono paretianamente delle derivazioni, nascondono una società decadente, che ha smarrito senso, fiducia, sentimenti; e soprattutto portano all’inconcludenza nel senso di non riuscire a realizzare la protezione e lo sviluppo delle comunità. Le ultime vicende del Movimento 5 Stelle a Roma confermano l’idoneità (al massimo) parziale e (quasi) marginale dell’onestà a realizzare un governo efficiente; il fatto che i “grillini”, anche per non aver avuto accesso al potere siano onesti è credibile e nella massima parte vero. Ma che questo li accrediti ad essere dei governanti efficienti, no. E ce ne stiamo accorgendo, sperando, col tempo di avere qualche (piacevole) sorpresa. Se manca machiavellicamente la virtù politica, possiamo quanto meno contare nella fortuna.
Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 17:00