Oriana Fallaci se n’è andata il 15 settembre 2006. A farne oggi il “santino” suonerebbe da insulto alla sua memoria. Ma parlare senza peli sulla lingua della sua eredità morale si può. Si deve.
Il lascito della Fallaci è prezioso, è fatto di interrogativi: chi siamo, cosa siamo diventati, cosa dovremmo essere. La signora – scrivere confidenzialmente Oriana l’avrebbe infastidita – è stata spiazzante, divisiva con le sue battaglie “politicamente scorrette”. Gli amici la raccontano, lei cresciuta nella guerra, insopportabile e generosa come sono le persone che nutrono il senso della vita attraverso le scelte di campo compiute. La passione è stata la sua cifra, il tratto nobilitante di un carattere terribile: passione per le idee, per l’amore, per la libertà, per la scrittura cesellata, per le giuste cause, per la sua fiorentinità.
La Fallaci ha insegnato, sine cathedra, un giornalismo diverso che non conosce la neutralità dell’osservatore distaccato ma mette dentro la persona nel coraggioso rovesciamento dello slogan: “I fatti separati dalle opinioni”. Come quando, raccontando la strage degli studenti in rivolta a piazza delle Tre Culture, nella Città del Messico delle Olimpiadi del 1968, la signora mise nella notizia se stessa, accompagnandola con una manciata di pallottole che per un soffio non la portarono via dalla vita. “Su ogni esperienza personale lascio brandelli d’anima”, sono parole sue. Come quando, nel corso dell’intervista all’Ayatollah Khomeyni si tolse il chador che le avevano imposto facendo fuggire inorridito l’interlocutore, non era insolente atteggiamento di sfida ma fiera rivendicazione di libertà. La libertà è stato l’imperativo di fede che ha scandito la vita dell’autrice di “Sesso inutile”, antesignana senza coccarda delle battaglie per la parità di genere, nei giorni luminosi dell’apoteosi della grande reporter-scrittrice e in quelli bui durante i quali ha scoperto dentro di sé l’alieno, il cancro. Quanti come lei hanno guardato da vicino il male incrociandolo lungo le piste battute nei viaggi all’inferno? Solo per questo avremmo dovuto consacrarla eroina del nostro tempo, invece sono ancora troppi coloro che continuano a maledirne la memoria. A volte disvelare la realtà può essere pericoloso. Come il suo j’accuse dell’Islam: inemendabile scarto eterodosso dalla dominante ideologia buonista dei benpensanti. Cosa avrebbe dovuto fare senza negarsi? Tacere della sua lucida visione del futuro di un’Europa islamizzata per non turbare il sonno di una ragione ipocrita, vittima e insieme complice del falso mito multiculturalista e pacifista?
L’ultima medusa nell’oceano deserto, come amava definirsi, ha lanciato l’allarme alla vista del crollo delle Torri Gemelle. Ciò che è accaduto dopo, in questi quindici anni, dimostra che diceva il vero. È sotto gli occhi di tutti: l’Occidente europeo appare disorientato e inerme di fronte all’offensiva della sponda nemica pronta a perfezionare il piano di conquista del campo dell’infedele, come ordinato dal Profeta. Il futuro di una civiltà mostruosamente sfigurata, nella profezia della Fallaci, si chiama Eurabia. Il sospetto è che quel futuro sia già qui. Può darsi che il suo stile veemente di dire le cose spaventi, ma alzi la mano chi possa onestamente affermare che la Fallaci abbia avuto torto.
Le verità che ci ha sbattuto in faccia portano in grembo la speranza di un risveglio delle coscienze. Dovremmo coglierle piuttosto che respingerle con apotropaica ottusità alla stregua di malefici vaticini da esorcizzare. “Down, get down!”. Avremmo dovuto darle ascolto: buttarci a terra per schivare il colpo e, dopo, di nuovo in piedi per contrattaccare. Sono quindici anni che tiriamo fendenti a vuoto come sciabolatori ciechi che non vedono dove sia il bersaglio giusto. Come in Afghanistan, in Iraq, in Egitto, in Libia. E in Siria. Quanto tempo ancora albergherà in noi lo spirito autolesionistico? Chiedetelo alle vittime della barbarie islamica, a tutti coloro che hanno pagato il conto al nostro posto, ma non prendetevela con chi la sua razione di rabbia e d’orgoglio l’ha messa nel piatto. Generosamente, senza trattenere niente.
Aggiornato il 18 ottobre 2019 alle ore 12:04