
Errare è umano, perseverare è diabolico. Ad assistere allo psicodramma del Campidoglio si direbbe che la sindaca Virginia Raggi ami perseverare. Invece che cambiare radicalmente rotta nella scelta del personale che dovrà amministrare la Capitale, lady Virginia insiste. Vuole accanto a sé magistrati, come se questi possedessero poteri sovrannaturali. Ma anche i giudici sono persone e, come tali, sono soggette alla fallibilità che è propria della natura imperfetta, ma perfettibile, dell’essere umano. E cadono.
Così è toccato alla signora Carla Raineri, nella vita civile giudice di robusta esperienza, di perdere la poltrona appena ottenuta nell’ambito dell’amministrazione capitolina, per sentenza inappellabile di un altro giudice, quel Raffaele Cantone presidente dell’Autorità “omnibus” per l’anti-corruzione.
È stata poi la volta di Raffaele De Dominicis, uno stimato magistrato della Corte dei Conti da poco andato in pensione. La sua parabola politico-amministrativa è fra le più brevi che la storia annoveri. Più breve del primo volo aereo dei fratelli Wright. Giusto il tempo della nomina, delle polemiche su chi l’avesse indicato per svolgere il ruolo di assessore comunale al Bilancio e poi, puntuale come un treno delle ferrovie svizzere, la sentenza “ex-post” dell’immancabile giudice Cantone che, come il pennuto di Portobello, ha detto: Stop. Quindi, tutto da rifare.
Nel frattempo i giorni passano e la situazione della Capitale non accenna a migliorarsi da sola. Il teatrino Cinque Stelle è servito a deviare la pressione dei media dal vero problema grillino: l’inidoneità a governare situazioni complesse. Il gossip e i retroscena di cui i giornali sono ghiotti li hanno portati a preferire l’osso insaporito della gara tra un Di Battista che sale e un Di Maio che perde share. Ma in queste ore circola una notizia inquietante: Grillo vorrebbe affidare ad Antonio Di Pietro il ruolo di playmaker nella giunta della Raggi. Ancora una volta un magistrato, sebbene molto ex, a ribadire l’equazione che l’etica pubblica possa essere garantita soltanto dai giudici e da nessun’altra categoria sociale-spirituale presente nella meccanica comunitaria. A cominciare dal “politico”.
La verità è che questi grillini non sono il nuovo, ma il vecchio. Privi di una solida intelaiatura ideale - non sanno andare più in là del frusto “onestà, onestà”- tutti i coprotagonisti dell’avventura Cinque Stelle stanno riportando indietro le lancette dell’orologio. Non a un 10 brumaio dell’anno IV della Rivoluzione Francese, ma a un non meno cupo 1992, l’anno di Tangentopoli, quando si diede la stura all’esercizio della giurisdizione trasformata in instrumentum regni per la difesa della “morale repubblicana” di cui i giudici si erano autoproclamati depositari. I grillini sono rimasti esattamente lì, all’idea che la politica non possa affrancarsi dalla tutela di un potere sovraordinato che ne corregga gli indirizzi sulla base di una valutazione etico-giuridica che gli appartiene. Un potere che non cede il passo a nulla, neppure alla volontà del popolo sovrano. Avevamo proprio bisogno di quattro ragazzini a corto di competenza per tornare a un passato di cui non si ha nostalgia?
Altro che antipolitica, i Cinque Stelle sono l’anacronismo della politica: la sua malattia infantile, giusto per parafrasare le parole di un noto politico russo che ha incasinato un bel pezzo del Novecento con la sua rivoluzione. Politica è decisione, esercizio di funzioni di comando mediante poteri dei quali il politico è legittimamente investito. Non è, invece, fuga dalle responsabilità o subappalto del mandato ricevuto dal popolo a soggetti terzi collocati fuori dell’asse della sovranità. Se Virginia Raggi continua a dipendere, nelle sue scelte di governo, dai pareri vincolanti di altri soggetti, istituzionali o extra-istituzionali che siano, vuol dire che il feto Cinque Stelle è nato morto. Non resta, allora, che fargli un degno funerale.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:59