
Il grado di umidità presente nell’aria è di due tipi: vi è un’umidità reale e una percepita. Allo stesso modo i ballottaggi mostrano due risultati diversi ma ugualmente veri: uno numerico, l’altro percepito. Nel caso del Pd renziano i due dati coincidono: la sconfitta è stata nei numeri e nel sentire degli elettori. Su questo non ci piove. Anche per i Cinque Stelle vale lo stesso discorso. I grillini vincono diciannove delle venti sfide dirette nelle quali erano coinvolti, in più riportano un risultato eccellente a Roma, dove la vittoria di Virginia Raggi era ampiamente attesa e a Torino, dove invece in pochi credevano alla possibilità del sorpasso della giovane Chiara Appendino ai danni di Piero Fassino.
Discorso differente per il Centrodestra. Tra luci e ombre la coalizione berlusconiana registra, nel conteggio delle amministrazioni comunali conquistate, un significativo avanzamento rispetto alle precedenti elezioni del 2011, tuttavia la percezione del risultato è quella di una sconfitta netta. Perché? Certamente a marcare con il segno negativo la performance del Centrodestra sono state le sconfitte nelle due grandi capitali del Nord e del Sud, Milano e Napoli, dove erano in partita due esponenti di una coalizione non frantumata come invece era accaduto a Roma. Cosa hanno sancito le urne? Sostanzialmente, la crisi del cosiddetto voto moderato benché durante la campagna elettorale ci si fosse spesi molto, soprattutto in casa forzista, su questo punto considerato nodale. I flussi ne indicano lo spostamento verso i Cinque Stelle. Il popolo di destra ha scelto la novità nella speranza di un effettivo cambiamento di rotta nell’amministrazione della cosa pubblica. In alternativa, cresce l’astensione come nel caso paradigmatico di Napoli mentre da nessuna parte esso converge sul centrosinistra. Anche il tentativo in extremis di recuperare una posizione di centro non ha funzionato.
L’appello dei dirigenti di Forza Italia a marcare, con l’opzione della scheda bianca, l’equidistanza dal centrosinistra e dai grillini è stata un flop. Il che porta a concludere che i partiti del Centrodestra abbiano perso la capacità di condizionare gli orientamenti dei propri elettori. La fotografia del Paese che viene fuori dalle urne di domenica dimostra che non basta riunirsi per fare risultato. Gli elettori vogliono sapere con chiarezza su cosa ci si mette insieme e per raggiungere quali traguardi. Soprattutto, non si può amalgamare nelle realtà locali ciò che a livello nazionale è diviso, se non contrapposto. Il Centrodestra ha l’obbligo d’interrogarsi sul proprio futuro avendo la consapevolezza del rischio che corre a restare immobile. Il voto di domenica fotografa non la nascita di un tripolarismo nel quadro politico italiano ma, al contrario, la consacrazione di un diverso bipolarismo “2.0”, tra forze radicalmente alternative, il Pd e i Cinque Stelle, e la scoperta nel mezzo di un serbatoio di consensi, che è il Centrodestra, da trasformare in terreno di caccia.
D’altro canto ciò già avviene: mentre il Pd renziano sottrae deputati e senatori al partito di Berlusconi, i Cinque Stelle ne cominciano a prosciugare il bacino elettorale. Se si vuole arrestare questa pericolosa deriva è necessario rimettere mano all’offerta politica che è risultata palesemente datata. Quindi dire: prima i programmi e poi gli uomini, non può restare solo un facile slogan ma deve tradursi in metodo di costruzione del consenso. L’unica cosa certa, qualsiasi strada si voglia intraprendere, è che restare fermi a litigare in famiglia non porterà la rimonta. Più realisticamente condurrà al tramonto definitivo di un sogno: la rivoluzione liberale, strozzata nella culla per mano dei suoi stessi creatori. È dunque questo che vuole la classe dirigente di Forza Italia, della Lega e di Fratelli d’Italia? Vogliono davvero che non ci resti altra possibilità che morire renziani o grillini?
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:04