
Le rapine negli appartamenti e nei luoghi di lavoro sono un’emergenza nazionale. Indagare le cause dell’impennata di questo odioso fenomeno criminale è complicato. La soluzione del problema, non più riducibile al solo piano giuridico, invoca una svolta di tipo culturale.
Paolo Guzzanti dalle colonne de “Il Giornale” ha offerto un prezioso contribuito per fare chiarezza sulla differenza di prospettiva che separa l’esperienza americana da quella europea in materia di uso legittimo delle armi. Per ragioni che incrociano la storia, l’ideologia, l’orientamento religioso e il senso morale, nel Vecchio Continente è prevalso il principio che l’unica violenza legittima sia quella esercitata dallo Stato. Perciò la protezione e la sicurezza dei singoli individui restano una responsabilità in appannaggio del “pubblico”, non delegabile ai privati cittadini. I casi di non punibilità per chi ricorre all’uso delle armi per difendersi sono codificati ma ugualmente complessi da definire, particolarmente nella corretta interpretazione del principio giuridico che subordina la legittima difesa alla sussistenza della proporzionalità con l’offesa. Il che significa, ad esempio, che un povero cristo che intenda reagire all’aggressione di uno sconosciuto al suo domicilio privato, per non incorrere lui nella sanzione penale, dovrebbe preventivamente stabilire quali siano le intenzioni del malvivente, valutare se il pericolo sia imminente e grave e verificare se la reazione, nei mezzi e nell’intensità, sia proporzionata alla violenza subìta. Insomma: un rompicapo creato ad arte dal legislatore per scoraggiare il cittadino a fare da sé, nel convincimento, tutto ideologico, che la storia, la memoria e gli affetti violati della vittima non valgano quanto l’incolumità dell’aggressore.
Lo Stato pretende che se ti entra qualcuno in casa, devi chiamare i carabinieri. E non fare altro. Facile a dirsi, difficile a farsi quando sono in gioco la vita e i beni delle persone. La violenza criminale cresce ma le forze dell’ordine non bastano, e mai basteranno, per impedirla. E così, a furia di ignorare le grida d’allarme dei cittadini, la politica si è resa responsabile della rabbia popolare che sta pericolosamente montando. E come risponde? Nel solito modo ambiguo: vorrebbe fermare la valanga con qualche sottile aggiustamento della normativa vigente in maniera da dare l’illusione di essere intervenuta senza però cambiare granché nella sostanza. Ma questa volta i cittadini non cadranno nella trappola dei provvedimenti che dicono tutto e l’esatto contrario. Essi reclamano chiarezza. Quindi è inutile girarci intorno: il problema è culturale e la soluzione, se la si vuole trovare, va cercata sul medesimo piano. Coloro che sono contrari a concedere ai privati maggiore libertà di autodifesa citano a pretesto la campagna contro la diffusione delle armi promossa da Barack Obama. Ma sbagliano. Nessuno pensa di trasformare l’Italia nel Far West, si tratta tuttavia di decidere se sia giusto prendersela con le vittime piuttosto che aumentare la deterrenza contro i criminali. La questione incide su uno snodo di civiltà: può l’uso responsabile delle armi per la difesa personale diventare parte dei diritti di cittadinanza attiva, al pari dei doveri di solidarietà sociale e degli obblighi contributivi? La domanda che pone Guzzanti, richiamando la tragedia parigina del Bataclan, è giusta: quante persone si sarebbero salvate se qualcuno tra gli avventori del locale notturno fosse stato armato e avesse reagito, sparando, all’attacco dei terroristi?
Ora, ci chiediamo, la classe politica italiana è pronta ad affrontare la questione a viso aperto oppure intende continuare a svicolare dal tema come ha fatto finora? In fondo, decidere di non decidere è un modo collaudato dai politici per restare a galla. Anche quando non si sa nuotare.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:58