
Uno dei commenti più insulsi, dopo la scontata votazione a favore della ministro Maria Elena Boschi, è stato “Il voto della Camera ha dimostrato che non c’è stato un conflitto d’interessi”. Si inneggiava così alla vittoria, nel voto di sfiducia alla figlia di Pier Luigi Boschi (vicepresidente della Banca Etruria) per la sua presenza nel Consiglio dei Ministri che ha trattato il decreto “salva-banche”, dentro il quale è stato inserito il codicillo salva dirigenti e quindi salva babbo Boschi e tutto ciò che arriverebbe anche alla figlia per eredità o donazione.
È vero che quel voto ha significato che la sfiducia era stata battuta, e che la Camera rifiutava la lettura della presenza di un conflitto d’interessi, ma quel voto non significava per nulla che era dimostrato che il conflitto non esisteva. Al massimo dimostrava che c’era una maggioranza che si è espressa in tal modo respingendo col voto contro la sfiducia richiesta da alcune opposizioni. I motivi per i quali quella maggioranza si sia comportata in detto modo risponde, comunque, alle seguenti possibilità: a) reale convincimento che la Ministra non fosse in una situazione di conflitto d’interesse; b) appartenenza allo stesso schieramento della stessa e, quindi, da difendere a prescindere; c) rifiuto di provocare contraccolpi indesiderati come una crisi di governo con la possibilità di nuove elezioni; d) scelta di non compromettere il proprio trasformismo, che molti deputati si sono dati, nella speranza di una riconferma elettorale sia pure sotto altra bandiera.
A parte l’ipotesi del reale convincimento, le altre non rispondono al quesito posto dalla mozione (la sfiducia della ministra) ma poggiano essenzialmente sul tornaconto dei singoli parlamentari che sperano, come minimo, di evitare l’accorciamento della legislatura e, come massimo, che l’uomo solo al comando si ricordi di ognuno di loro e decida di ricompensarli ricandidandoli. Ma questa speranza rischia di restare tale perché è normale che chi vuole circondarsi di uomini fedelissimi appena può si libera di chi ha tradito una volta e non ci penserebbe molto a rifarlo di nuovo col proprio nuovo referente.
Al di là, comunque, del perché si sia coagulata la suddetta maggioranza, risulta fuor di luogo esultare per il risultato come se con quel voto si fosse messa la parola fine al vicenda delle banche salvate dal Governo Renzi. Non tanto perché i truffati non smetteranno di gridare la loro rabbia e pretenderanno, giustamente, la restituzione di quanto è stato loro sottratto, ma soprattutto perché la pentola aperta dallo scandalo sta facendo emergere una serie infinita di porcate tanto da spingere il Presidente della Repubblica Mattarella a chiedere che la verità venga tutta a galla, infischiandosene che le responsabilità dei dirigenti della Banca Etruria vengano conclamate e diventino possibili reati penali.
Ma vi è di più. Ed è un segnale che gli uomini liberi salutano positivamente. Non solo per quanto ricorda il direttore de L’Opinione, Arturo Diaconale, che Mattarella “senza alzare la voce, forzare i toni, mostrare i muscoli e menare fendenti, sembra deciso ad usare la pacatezza per ribadire che con le istituzioni non si può giocare” richiamo “fin troppo chiaro al Premier artefice di una forse inconsapevole delegittimazione della Banca d’Italia compiuta con l’investitura a supremo arbitro della Repubblica di Raffaele Cantone”.
Ma Mattarella, interrompendo la prassi napolitaniana del regista a senso unico (cioè di parte), si è presentato, come uscito dalla lampada di Aladino, come uno dei contrappesi indispensabili a difendere la democrazia messa in discussione da una legge elettorale liberticida com’è l’Italicum, da forzature come la composizione della Consulta e da riforme come quella della Rai. Sembra, quindi, che il capo dello Stato non sarà il nuovo Vittorio Emanuele III e l’uomo solo al comando deve tenerne conto. L’Italia forse tirerà un respiro di sollievo.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:20