
Che, per carità, il solo fatto di essere fin dall’inizio l’unico indagato - e rendersi, quindi, conto che le indagini se ne guardano bene dall’allargare il proprio raggio di azione alla ricerca di eventuali altri colpevoli - non lasci ben sperare per le sorti giudiziarie di chicchessia, è un dato incontrovertibile.
Poi però essere assolto in primo grado dalle accuse ed esserlo anche in appello, beh, un po’ di speranza la lascia innegabilmente intravedere. Speranza che però traballa se poi la Cassazione rimanda indietro il processo al secondo grado e quest’ultimo ti condanna a 16 anni di carcere. Ma, a proposito di speranza, c’è sempre il ritorno di fronte alla Suprema Corte e qui, nel corso del dibattimento, il Pg (cioè la pubblica accusa) ritiene che la sentenza emessa dalla Corte di Appello ha condannato l’imputato credendo erroneamente che il suo compito fosse quello di “cercare gli indizi a carico” e che la stessa (sentenza, ndr) “si industria a costruire un movente”.
Il Procuratore generale parla di accertamenti “che non si sono dimostrati affidabili”, di “inaccettabile alterazione delle risultanze processuali” e di un buonismo che avrebbe permesso “il solito inaccettabile sistema di un colpo al cerchio ed uno alla botte”. Ecco, di fronte a tale evolversi degli accadimenti (peraltro durato oltre otto anni), se non muori prima non puoi che nutrire una qualche speranza che aumenta se quel Pg chiede, di conseguenza, anche l’annullamento della sentenza con relativo rinvio.
La speranza... La quale non tiene evidentemente conto di “quei processi televisivi che inquinano la capacità di giudizio degli spettatori tra i quali, forse nessuno ci pensa, rientrano anche i giudici - togati e popolari - di queste vicende”: c’è la stampa, non si può rinviare ancora ed allora sei colpevole, è condanna definitiva, il caso è chiuso e tutti vivano felici e contenti: alla faccia di ogni ragionevole dubbio.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:33