
Nei giorni delle stragi jihadiste e dell’intensificarsi della guerra al nemico dell’Occidente, lo Stato islamico dell’autoproclamato califfo Abū Bakr al-Baghdādī, il rischio di una marea montante d’odio verso l’islam nel suo complesso è più di un’ iperbole retorica. Eppure, il nostro emisfero culturale non dovrebbe misurare la propria capacità reattiva confidando su un’insufficiente informazione di cosa significhi Islam e di cosa la fede religiosa comporti per il credente in Allāh. Per dominare le nostre paure profonde il solo rimedio efficace è di sforzarsi di conoscere ciò che è epidermicamente percepito alla stregua di una minaccia ontologica incombente. Sarebbe, perciò, utile provare a fare chiarezza su quei punti essenziali della dottrina islamica che generano incompatibilità con la Weltanschauung dell’Occidente sviluppato e, più banalmente, con i nostri stili di vita quotidiani. Interrogarsi, dunque, sugli aspetti teologici e dottrinali che spiegano cosa sia effettivamente l’Islam potrebbe costituire un primo passo verso la reciproca comprensione. Ne discutiamo con il professor Massimo Campanini che insegna studi islamici presso il dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Trento ed è considerato, dalla comunità scientifica, tra i massimi esperti italiani di interpretazione del Corano e del pensiero politico islamico. Brillante saggista, il prof. Campanini è nelle librerie con il suo ultimo lavoro: “Quale Islam? Jihadismo, radicalismo, riformismo” - edizioni “La Scuola” (Brescia) - e, in uscita il prossimo anno per i tipi della Mondadori, “Storia del pensiero politico islamico”.
L’opinione pubblica ha imparato a conoscere dell’universo islamico i due mondi contrapposti dei sunniti e degli sciiti. Meno note sono invece le motivazioni dottrinali e teologiche di questa scissura che produce effetti politici e strategici di preoccupante rilievo. Professore, ci dica qualcosa di più su questo universo religioso frazionato?
Lo scisma tra sunniti e sciiti inizia per ragioni squisitamente politiche. Gli sciiti sostengono che alla morte del profeta Muhammad (632) avrebbe dovuto succedergli immediatamente il cugino e genero ‘Ali (shi’a vuol dire “partito” (di ‘Ali), mentre le circostanze vollero che ‘Ali fosse solo il quarto dei califfi. I sunniti riconoscono la legittimità anche dei primi tre califfi che precedettero ‘Ali (Abu Bakr, ‘Umar e ‘Uthman) e soprattutto la legittimità della dinastia degli Omayyadi che presero il potere nel 661 dopo l’assassinio di ‘Ali. Per lunghi secoli i partigiani di ‘Ali, che col tempo si auto-identificarono come sciiti, rimasero quietisticamente sottomessi al potere sunnita in attesa escatologica della ricomparsa dell’imam, l’ultimo discendente di ‘Ali scomparso e occultato proprio per preparare l’avvento messianico della restaurazione del regno di giustizia e della fine dei tempi. Ciò non toglie che nella storia islamica regnassero dinastie sciite (I Fatimidi ismailiti dal 909 al 1171 e i Safavidi dal 1501 al 1722) fino naturalmente alla rivoluzione di Khomeini in Iran nel 1979. Dal punto di vista dottrinale, l’elemento teologico fondamentale di distinzione tra sunniti e sciiti riguarda ruolo e funzioni del califfo-imam: mentre per i sunniti è solo un uomo appartenente alla tribù dei Quraysh, è elettivo e ha potere meramente esecutivo della legge divina; per gli sciiti è un benedetto prescelto da Dio, deve appartenere alla famiglia ristretta di Muhammad e ha il potere di cambiare la legge. Sottendono a questo risvolto teologico-politico, due princìpi altrettanto essenziali: per gli sciiti infatti il Corano ha un significato essoterico e uno esoterico interpretabile dagli imam (i sunniti sono tendenzialmente più letteralisti anche se non rifiutano l’esegesi del testo), e soprattutto l’imam è in qualche modo la porta d’accesso ermeneutica alla profezia essoterica di Muhammad, per cui in certi casi estremi gli sciiti ritengono l’imam superiore al profeta, ‘Ali superiore a Muhammad.
L’essenza profonda dell’Islam è nel rapporto di totale affidamento del credente nell’unico Dio che si è rivelato attraverso un messaggio profetico. A ben vedere, monoteismo, profetismo e rivelazione sono elementi costitutivi che l’accomunano all’ebraismo e al cristianesimo pre-trinitario. Cos’è invece che segna l’inconciliabilità con le altre due religioni?
Relativamente al cristianesimo, sempre parlando da un punto di vista teologico, il punto di frattura insanabile con l’Islam è la questione incarnazionistico-trinitaria. L’Islam non può in nessun modo ammettere che Dio si sia incarnato in Gesù o che sia, come dice il Corano, “il terzo di tre” o, appunto, rovesciando la prospettiva, che Gesù sia Dio. Ciò comprometterebbe la trascendenza divina e il monoteismo. Il Corano al proposito è chiarissimo: il trinitarismo non è monoteismo, in nessun modo. Anche un filosofo assolutamente open-minded come Abu Zayd (1943-2010) riconosceva questa irriducibilità, che implica che Gesù non è redentore (l’Islam non ammette il peccato originale) e non è neppure morto crocefisso. Altri punti di divergenza sono più facilmente superabili. Quanto all’ebraismo, non vi sono veri e propri punti di differenza dogmatica: monoteismo e carattere giuridico della religione sono identici. Il punto di scissione più forte riguarda la presunta elezione del popolo di Israele: il Corano è nettissimo a condannare la pretesa dei “giudei” (yahud) di essere il popolo prescelto. Ma teologicamente le differenze sono minime e riguardano soprattutto la storia della profezia più che la concezione di Dio. L’odio verso gli ebrei– se si può veramente dire così – ha ragioni storico-politiche legate prima al rifiuto che gli ebrei di Medina opposero al profeta Muhammad, e poi, soprattutto, alla nascita dello stato di Israele nel 1948.
Il Corano, testo sacro di tutti i musulmani perché è rivelato da Dio e da lui stesso trasmesso agli uomini attraverso il Profeta, ha un contenuto intangibile. Tuttavia, la dottrina fa una distinzione tra versetti “solidi” non soggetti a interpretazioni che ne impongono un’applicazione letterale e versetti allegorici sui quali è consentita una flessibilità esegetica. L’Occidente vorrebbe che il mondo islamico facesse uno sforzo di contestualizzazione del messaggio coranico nel divenire della storia. Le chiediamo se ciò sia possibile. E in particolare: gli argomenti che provocano maggiore attrito con la cultura occidentale, come ad esempio il ruolo della donna nelle società islamiche, il trattamento dovuto ai non-musulmani, l’odio irriducibile verso gli ebrei, in quali tipologie di versetti rientrano?
La distinzione tra versetti solidi e allegorici (Q. 3:7) è troppo complessa e ha fatto versare talmente tanti fiumi di inchiostro che non può essere analizzata in poche parole. Mi limito a quattro rapide osservazioni: a) la possibilità di “allegorizzare” ovvero di interpretare ermeneuticamente il Corano è certamente più diffusa tra gli sciiti che tra i sunniti ed è certamente obbligatoria almeno per i mistici e i filosofi; b) nello stesso mondo sunnita, tuttavia, le opinioni sono discordi: un Tabari (X secolo) era iper-letteralista, un ‘Abduh (m. 1905) tutto il contrario; c) in età contemporanea, l’ermeneutica anche filosofica si è ampiamente diffusa tra i musulmani, per cui è da sfatare il luogo comune che l’Islam non conosca interpretazione; d) la questione sensibile delle donne o del jihad, dal punto di vista del letteralismo, non va tanto spiegata in termini di versetti solidi o allegorici, quanto in termini di versetti abroganti e abrogati. L’idea (sancita apparentemente in Q. 2:106) che alcuni versetti rivelati più tardi abroghino versetti rivelati cronologicamente prima conduce a distorsioni pericolose. Così i jihadisti affermano che versetti aggressivi come Q. 9:5 e 29, che incitano alla guerra senza quartiere contro idolatri e miscredenti, rivelati al termine della vita di Muhammad, abrogano versetti ecumenici rivelati in precedenza come Q. 16:125 e Q. 2: 62, che invece incitano al dialogo e alla reciproca comprensione.
L’immaginario collettivo occidentale è molto impressionato dalle forme retributive che il Dio unico riserverebbe ai più ortodossi tra i credenti. È celebre, in proposito, la questione delle 72 mogli vergini che attenderebbero lo shahīd, il testimone-martire, al suo arrivo nello Jannah, il paradiso di Allāh. Non le chiediamo dettagli sul punto. Piuttosto ci aiuti a comprendere quale sia l’incidenza degli elementi escatologici nel piano della rivelazione islamica e se è corretto affermare che quella musulmana sia una religione decurtata di una dimensione propriamente messianica e provvidenziale.
Anche qui il tema è complesso. Storicamente possiamo dire che Muhammad, come testimoniano le prime sure rivelate del Corano, credeva (come Gesù del resto) imminente la fine del mondo. Quindi inizialmente l’Islam era escatologico- apocalittico. Non messianico, però, se con messianesimo si intende l’attesa di una palingenesi finale che instauri il regno di Dio sulla terra. È caratteristico che il termine islamico per “messia”, cioè “mahdi”, non sia coranico: l’idea del mahdi e dell’anticristo nel Corano non c’è. Muhammad ovviamente si sbagliava sulla fine del mondo (ma anche Gesù che proclamava imminente l’avvento del regno di Dio e dunque si credeva messia, si sbagliava). Nell’Islam, l’idea messianica si sviluppa col tempo. I sunniti e gli sciiti oggi la accettano entrambi, con certe differenze. Per gli sciiti il messia-mahdi coincide con la ricomparsa dell’imam nascosto che appunto instaurerà il regno del bene prima del giorno del giudizio. Per i sunniti, sarà Gesù in persona (che nel Corano è definito “masih ibnu Maryam” cioè “il messia figlio di Maria”), non Muhammad, a ricomparire per sconfiggere l’anticristo islamico (il Dajjal) e “a spezzare i crocifissi” prima della fine del mondo, denunciando l’errore dei cristiani che lo hanno divinizzato. La prospettiva sciita è comunque più vicina a una teleologia della storia.
L’Islam fonda i suoi presupposti nella cogenza dei precetti di Allāh che regolano la convivenza comunitaria dei credenti. La Legge, la Shari’a, che ha natura giuridica non nasce dal “pactum societatis” ma è diretta emanazione della volontà divina. Come potrebbe conciliarsi, nella vita quotidiana del musulmano residente in Europa, il vincolo d’obbedienza imposto dalla fede con l’adesione ai principi dello Stato di Diritto che sono patrimonio della cultura occidentale?
Le contraddizioni e difficoltà sono meno gravi di quanto si pensi e possono essere risolte con la buona volontà da parte di tutti. La stragrande maggioranza dei paesi musulmani non applica più la shari’a, o meglio il fiqh derivato dalla shari’a, poiché (a parte un pugno di stati che si professano “islamici”, come l’Arabia Saudita, il Sudan o il Pakistan) le legislazioni dei paesi musulmani si ispirano ai codici occidentali, nei princìpi e nelle procedure. L’unico settore che la cosiddetta shari’a controlla ancora in gran parte è quello del diritto di famiglia: matrimoni, divorzi, eredità. Ma non credo che si tratti di distanze insuperabili. La poligamia per esempio (che comunque è meno diffusa di quanto si creda) sta lentamente arretrando anche nei paesi musulmani, la maggior parte dei quali prevede restrizioni severe alla possibilità di avere più mogli, anche se formalmente (a parte la Tunisia e la Turchia) non ha abolito l’istituzione. Altrettanto lentamente anche i diritti femminili a chiedere e ottenere più facilmente il divorzio e le relative tutele sono sempre più rivendicati. Il processo è appunto lento ma sarà inarrestabile. Inoltre, la shari’a in sé non è un codice, ma un sistema di valori che ispira il diritto, cioè il fiqh. Il diritto coranico, come scrivono i giornali, non esiste. Il Corano piuttosto è uno dei fondamenti rivelati (shari’a) del diritto che, ripeto, è il fiqh. I paesi “islamici” che applicano le pene corporali sono pochissimi e sono certo che nessun musulmano che venga a vivere in Occidente pretenderebbe mai che si tagli la mano ai ladri. Il pensatore svizzero Tariq Ramadan, musulmano europeo, va ripetendo da tempo che i musulmani devono obbedire alle leggi dei paesi che li ospitano. Nelle prossime settimane parteciperò a ben due incontri di musulmani italiani, soprattutto giovani di seconda generazione, che dibattono apertamente proprio di queste questioni. La consapevolezza c’è e sempre più radicata. L’importante è rendersi conto che storicamente non si cambiano tradizioni millenarie in due giorni. L’Europa non è nata democratica, ci sono voluti sette secoli, dal conflitto papato-impero alla rivoluzione francese, alle guerre mondiali, perché lo diventasse. In Italia le donne votano da sessant’anni non dall’epoca di Giulio Cesare.
Parliamo del Jihād. Nell’immaginario occidentale il termine è associato a concetti che hanno tutti connotazione negativa: radicalismo, fanatismo, integralismo, fondamentalismo, terrorismo, dimensione ontologica dell’odio, guerra di civiltà. Ma qual è l’interpretazione più corretta e cosa rappresenta nell’impianto coranico il Jihād e chi è legittimato a proclamarlo?
Il termine jihad deriva dalla radice verbale j-h-d che etimologicamente significa “sforzo”, “impegno” – sulla via di Dio. Ci si può evidentemente “sforzare” in molti modi, dalla preghiera all’associazionismo sociale, dalla riflessione giuridica alla guerra. Dunque in sé jihad non ha affatto il significato primario di impegno militare. Al Profeta è attribuita la distinzione tra il “grande” jihad che è spirituale e implica la purificazione dei costumi, e il “piccolo” jihad che implica anche l’azione militare. Dunque il jihad non è in alcun modo una “guerra santa”, al limite una guerra “legale”. Infatti, nel Corano il termine jihad, che appare in questa forma solo quattro volte, non è mai inteso in senso bellico. Quando il Corano invita a combattere usa per lo più il verbo qatala non il verbo jahada (p. es. Q. 2:190 o Q. 22:39). Il jihad bellico è stato codificato dalla giurisprudenza seriore, ma con una netta distinzione tra il jihad difensivo, che è obbligatorio per tutti i musulmani, e il jihad offensivo, che è riservato alla scelta del singolo e dipende dalle circostanze. Non esiste in senso assoluto un’autorità che abbia l’esclusivo diritto di proclamare il jihad militare. Può farlo il singolo giurista in particolari condizioni: per esempio Ibn Taymiyya nel XIV secolo quando i mongoli assediavano Damasco, o ‘Abdallah ‘Azzam di al-Qaeda contro i sovietici in Afghanistan nel 1979. L’Islam certamente prevede, come del resto il cristianesimo, l’azione missionaria per propagare la fede e nel Medioevo la giurisprudenza considerava i territori non musulmani come territori contro cui potenzialmente fare la guerra. Ma per esempio le guerre turche contro l’impero bizantino erano chiamate ghazw piuttosto che jihad.
In base alla sua esperienza è possibile qualificare l’Islam secondo gli schemi concettuali della politica? In concreto: esiste un islam moderato, differente e autonomo da uno radicale?
Uno o forse il più grave errore di comprensione dell’Islam da parte dell’Occidente è proprio quello di considerarlo monolitico e univoco. L’Islam è internamente plurale, come il cristianesimo, anzi molto di più. Ci sono state molte più sette tra i musulmani che tra i cristiani. Quindi non solo è doveroso distinguere tra Islam moderato e Islam radicale, ma all’interno stesso dell’Islam radicale o cosiddetto fondamentalista, vi sono correnti quietiste e correnti jihadiste, correnti apolitiche e correnti politicizzate, eccetera. Pochi conoscono per esempio la corrente Tablighi, che è molto diffusa, è del tutto quietista e apolitica e lavora dal basso attraverso l’azione e la propaganda. Certo, molte correnti moderate sono conservatrici, ma se tutti i conservatori fossero terroristi…
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:36