Professori, è ora che diciate parolacce

Sissignori. La parola della scienza, della Scienza giuridica, dei giuristi grandi o che tali dovrebbero essere per il ruolo che occupano nelle sedi del sapere, nelle Università, per le responsabilità morali che hanno soprattutto nei confronti delle nuove generazioni, non deve essere sempre soave e misurata. Deve, all’occorrenza essere forte e chiara, non sussurrata. E deve, di fronte a certi eventi, levare la voce dell’indignazione.

Non siamo in un periodo in cui scuole italiane di diversi rami del diritto possa dirsi che eccellono e aprano nuove vie al pensiero giuridico nel mondo. È un ricordo, ad esempio, la grande scuola processualistica italiana, quella di Chiovenda, con tanti grandi maestri che lo seguirono. Non c’è nemmeno l’ombra dei maestri delle diverse scuole penalistiche italiane, più note e seguite oggi all’estero che in Italia.

Pochi, pochissimi, i giuristi che oggi possono dirsi “grandi”. Ma c’è qualcosa di peggio. Quelli che ancora possono chiamarsi giuristi sono tutti affetti, di fronte al fenomeno della rovina, della patologia, manifesta dell’ordinamento giuridico, pletorico e sempre più sgangherato da un male oscuro: la timidezza. Si direbbe, anzi, che più alto è il livello di questi signori e più tremebondo è il loro atteggiamento di fronte alle baggianate di legislatori e magistrati. Di lì a formulare il sospetto, quel “pensar male che è peccato” ma che consente, come diceva Andreotti, di azzeccarci, che per essere “grandi giuristi” (ed averne la patente) occorra una buona dose di prudente timidezza, il passo è breve. E se si arriva a questa conclusione c’è da avere paura. Un timore che fa paura.

Non credo che un’affermazione del genere sia espressione di un momento di malumore per cattiva digestione e per gli acciacchi della vecchiaia. Mi sapete dire che ci stanno a fare i giuristi, grandi e piccoli, le Facoltà di Giurisprudenza delle Università, le Cattedre (di cui esiste un’infinità fantasiosa) di materie giuridiche, se, di fronte alle baggianate, alle assurdità che legislatori per approssimazione e magistrati assatanati sfornano disinvoltamente, tra gli applausi di giornalisti senza pudore, tacciono, si rivoltano da un’altra parte, esprimono “misurata perplessità”, come se si trattasse di cose serie, come se il dissenso, anzi, manco quello, il “non completo consenso”, la non piena condivisibilità, fosse sufficiente a salvar loro l’anima, se ci credono, o a conservare la dignità della loro funzione?

Mi pare di aver già detto o scritto qualcosa su quello che potrebbe sembrare, e forse è, una eccezione a questo ignobile silenzio. Ho letto, con un certo ritardo, il libro di Fiandaca sul processo per la cosiddetta “Trattativa Stato-Mafia”. Il titolo del libro farebbe pensare ad altro. Prima manifestazione di prudenza? Forse: il titolo è “La Mafia non ha vinto”. Ma si potrebbe anche completare così, molto puntualmente ed efficacemente “… non ha vinto malgrado le baggianate di quelli che dicono di combatterla”.

Fiandaca è indiscutibilmente un grande giurista. Il meglio di quanto si possa oggi trovare tra i docenti del diritto penale. Quel suo libro è stato definito dalle persone per bene “coraggioso”. E non a caso. Crocetta, l’inqualificabile presidente della Regione Sicilia, nell’intento di offenderlo con il peggiore dei termini, lo ha, per la posizione assunta con quel libro, definito un “negazionista”. Uno capace di offendere la verità ed il pudore, come quelli che vanno predicando che l’Olocausto non c’è stato e che gli Ebrei, sei milioni, sono andati a nascondersi per rovinare la reputazione del povero Adolfo. Fiandaca analizza, con gli strumenti intellettuali di cui è padrone, quell’incredibile processo, di cui già il “nome d’arte” dice tutta l’incredibile assurdità. Fa a fette la tesi dell’accusa. Leggerlo, soprattutto se si riesce a dimenticare ciò che, c’è al di là ed al disopra di quei particolari magistralmente evocati, dà, non solo a chi è del mestiere, una considerevole soddisfazione intellettuale. Ma, avanzando nella lettura – almeno così è accaduto a me – ci si comincia a domandare: “Ma come fa a non prorompere in parolacce?”. E il fatto che Fiandaca non sia, come io in vecchiaia sono diventato, un turpiloquo, non impedisce questa considerazione. E si prosegue pensando che però, “nella pagina prossima…”. Niente. Le pagine si susseguono, le raffinate argomentazioni della stroncatura, pure. Ma, alla fine delle parolacce, almeno una, in italiano o in siciliano o in un altro dialetto, non si trova. E, francamente si rimane male. Non credo di essere il solo ad avere avuto questa impressione. E Fiandaca è un coraggioso. Quel tanghero di Crocetta vorrebbe addirittura bollarlo come “negazionista”, magari farlo condannare dai suoi amici magistrati antimafia.

Scusate questa troppo lunga parentesi sul caso, del tutto isolato, di uno che tanto timido non è. Ed allora, quelle parolacce all’indirizzo di certi vandali del diritto e della giustizia che manco Fiandaca ha utilizzato, vengano fuori. Signori Professori, se avete paura della vostra ombra cambiate mestiere. Se pensate che non è il caso di rischiare che so, una nomina a Giudice Costituzionale o, magari a consulente di qualche ministero di Renzi, ricordatevi che di tutti i generali di Napoleone, quello che è passa to alla storia senza riserve, e senza che la sconfitta finale ne offuscasse la gloria, è Cambronne che a Waterloo lanciò il suo epico “merde!” in faccia al nemico irrompente che gli intimava la resa. Ci vogliono oggi, di fronte allo scempio (e senza dover conoscere una Waterloo), molti Cambronne che lancino il loro fatidico grido di fronte ai nemici della ragione che altro non meritano.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:28