
Dopo svariati anni, l’ex ministro Calogero Mannino è stato dunque assolto dalla accusa infamante di aver partecipato ad una trattativa fra lo Stato e la mafia. La cosa che però fa molto pensare, anzi fa molto penare, è che il Procuratore Aggiunto Teresi insieme al sostituto Di Matteo, secondo quanto riportato dalla stampa, abbiano dichiarato che presenteranno comunque appello contro l’assoluzione, anche senza aver prima letto e valutato la motivazione della sentenza che sarà depositata fra tre mesi.
Non così ha reagito invero il Procuratore Capo, Francesco Lo Voi, il quale ha invece saggiamente specificato che attenderà di poter leggere quelle motivazioni prima di pronunciarsi sull’appello contro la sentenza. Spaccatura dunque ai vertici della Procura palermitana? Frattura fra il capo e i suoi sostituti? Nulla di tutto questo, ma, se si vuole, un effetto che insieme è più semplice e più preoccupante.
Infatti, è più semplice, senza bisogno di evocare contrapposizioni personali o separazioni ideologiche, perché si tratta di diversità di vedute. Tuttavia, nel medesimo tempo, è molto preoccupante sol che ci si fermi a considerare come la posizione di Lo Voi e quella dei suoi sostituti siano ciascuna espressione di una collocazione culturale e filosofico-giuridica opposta. Quella di Lo Voi, che attende le motivazioni per sciogliere il dubbio se appellare o no, risponde infatti in pieno alle ragioni dello Stato di diritto ed alla identità che in esso il giurista è chiamato ad assumere.
Il giurista infatti ha da essere innanzitutto prudente (e da qui, infatti, “giuris- prudenza”), rispettoso della presunzione d’innocenza e del tutto scevro da “pre-giudizi”, tanto da attendere, prima di formularne uno – come di sicuro è la decisione se appellare – la necessaria conoscenza dei ragionamenti e della valutazioni fatte da un Tribunale che abbia deliberato di assolvere.
Non altrettanto sembra potersi affermare per la posizione dei sostituti. Infatti, affermare che la Procura appellerà sempre e comunque l’assoluzione, qualunque sia la valutazione contenuta nella sentenza, e perciò senza conoscerla, equivale non a giudicare, bensì a pre-giudicare, il che esattamente ciò che va evitato. Il giurista sa bene che il suo giudizio è sempre esposto al rischio dell’errore e perciò deve sempre essere misurato col metro della prudenza e dell’umiltà, prudenza ed umiltà che vanno esercitate in ogni occasione appaiano necessarie: e francamente decidere se appellare o no una assoluzione disposta a favore di un ministro allora in carica per un’accusa infamante non è cosa da poco , tale che consenta di indulgere a compromessi della coscienza.
Prudenza ed umiltà allora sconsiglierebbero di annunciare un appello prima di aver saputo e compreso le ragioni di diritto che stanno alla base di un’assoluzione. Altrimenti, dimostrerebbe di aver ragione Totò, il quale propiziava il riso quando, con fare scanzonato, esclamava di voler fare o di voler dire qualcosa “a prescindere”, cioè senza nulla sapere e valutare di ciò che doveva farsi o dirsi. Solo che qui, c’è poco da ridere. Purtroppo.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:34