
Alla fine sono i penalisti ad essere finiti sul banco degli imputati nell’ultimo capitolo del duro scontro apertosi in vista del processo “Mafia Capitale” tra giornalisti, magistrati ed avvocati della Camera penale di Roma (Cpr). Quelli che da tempo conducono una battaglia per la difesa dei diritti di difesa degli imputati nel processo “Mafia Capitale” ed in generale contro il rischio, paventato proprio dal mondo dei penalisti, che questo processo rappresenti un esperimento in vitro di quella che si vorrebbe essere la giustizia del futuro, incardinata sulla progressiva e dilatata applicazione degli strumenti investigativi, processuali e di prevenzione con l’equiparazione del cosiddetto “doppio binario” e della legislazione speciale, previsti per I reati di mafia, ad altre tipologie di reato e di realtà delittuose che non dovrebbero essere affrontati in chiave mafiosa. Con tutto ciò che questo comporta in termini di contrazione dei diritti e di violazione del giusto processo, così come stabilito dalla Costituzione.
L’attacco agli esponenti della Camera penale di Roma, formulato durante la trasmissione condotta da Maurizio Martinelli (Tg2) “Punto di vista” da Lirio Abbate e Carlo Bonini, non prende di mira soltanto gli avvocati direttamente impegnati nell’attività difensiva, ma tendenziosamente l’intera Cpr. E rappresenta la replica ad un esposto presentato a settembre scorso da alcuni penalisti romani alla Procura della Repubblica contro 78 giornalisti che hanno seguito “Mafia Capitale” affinché, come previsto dall’articolo 115 del Cpp, comunicasse all’Odg la violazione plurima dell’articolo 114 del Cpp. Ossia il divieto, previsto da quell’articolo, di pubblicazione arbitraria di atti del procedimento penale nella fase delle indagini preliminari e di quelli del fascicolo del Pubblico ministero se si procede a dibattimento. A Giuseppe Pignatone ora la decisione se informare i Consigli di disciplina territoriali perché facciano le loro valutazioni disciplinari. Nel frattempo, però, l’accusa rivolta ai penalisti e formulata durante la trasmissione condotta da Martinelli si è connotata di toni così aspri, violenti e offensivi che - come scrivono i penalisti - “spetterà alla magistratura stabilirne la liceità”. In quella che dalla Camera penale di Roma viene definita “una campagna di pretestuosa e calunniosa disinformazione”, l’accusa esplicita rivolta ai difensori degli imputati di “Mafia Capitale” è quella di essere servi della mafia, di aver adottato un atteggiamento di fiancheggiamento mafioso, insomma di essersi messi a difesa non degli imputati, bensì dei reati e di conseguenza di rappresentare la prova dell’esistenza di “Mafia Capitale”. Ed a nulla sono valse le motivazioni addotte dai penalisti che hanno giustificato l’esposto come mera richiesta di intervento dell’Ordine dei giornalisti per tentare di mettere un argine al pericolo che un’informazione spregiudicata dal punto di vista delle garanzie processuali e unilaterale, perché quasi sempre frutto di pubblicazione di atti che passando dalla polizia giudiziaria sono solo dell’accusa o del Gip, inquini il processo compromettendone il principio di oralità e cosiddetta verginità cognitiva del giudice cui è vietata l’utilizzazione di atti del Pm nella fase del dibattimento in cui si forma la prova.
Sulle barricate già era salita la Fnsi, attribuendo all’esposto l’obiettivo di volere perseguire i giornalisti anche in sede penale. Eventualità da escludere. Dalla Cpr la puntualizzazione che “nessuno vuole il Soviet né la galera per i giornalisti”: la detenzione non viene mai applicata per l’articolo 684 del Cp (che stabilisce l’arresto fino a 30 giorni o l’ammenda di 258 euro per chi pubblica atti o documenti del procedimento penale di cui sia vietata per legge la pubblicazione) e con una oblazione da 129 euro il reato si estingue. Nessun intento censorio, dunque. Soltanto l’urgenza di un’informazione più responsabile.
Il riflesso, però, è di quelli incontrollabili e la censura è stata invocata anche quando dall’Organo di indirizzo e di controllo dell’Azienda radiotelevisiva pubblica si è chiesto, in nome del pluralismo, di dare la possibilità ai penalisti di rispondere alle accuse di contiguità con la mafia mosse loro dai giornalisti presenti in trasmissione. Perché tanta veemenza accusatoria, che va ben oltre l’asprezza dei toni lecita in qualsiasi scontro di posizioni, da parte del mondo giornalistico? Perché ogni volta che ci si avventura nel campo minato dei diritti, degli imputati e degli indagati, e se ne denuncia la compressione anche a mezzo stampa, il rischio che venga compromessa la garanzia all’imputato che il giudice si formi il convincimento in dibattimento, faccia a faccia con l’accusa, si grida allo scandalo e alla minaccia della libertà di informazione se non addirittura si chiama in causa l’intenzione intimidatoria, si pronunciano definizioni infamanti, “che travalicano i limiti del Codice penale” come gli stessi penalisti hanno scritto in un comunicato fino a trasformare in modo calunnioso la loro protesta nella “prova” che a Roma c’è la mafia? È lecito pensare che tanta verve si saldi con l’arroccamento del mondo della magistratura nei confronti delle richieste dei penalisti da tempo in agitazione contro il “processo a distanza”, contro la menomazione del diritto degli imputati detenuti di partecipare al proprio processo “in corpore vivo” e contro l’imposizione di stare lontano da chi li accusa, da chi li giudica e da chi li difende. Una modalità che sembra francamente porsi molto lontano da quei tratti di costituzionalità che il processo deve avere. E che denota una visione padronale, come se esso fosse una sorta di territorio di proprietà di cui una parte della giustizia potesse disporre in modo autoritario in spregio alla sua funzione di accertamento delle responsabilità penali e delle pari dignità che vi devono trovare sia l’accusa che la difesa. È anche una ricerca di spazio raziocinante nel diritto, quella dei penalisti romani e della loro “scomoda” battaglia per il diritto alla difesa e contro l’irregimentazione processuale dal demagogico sapore efficientista perseguito incardinando l’organizzazione delle udienze del processo su risibili logiche securitarie e di risparmio. Norme talmente lontane da qualsiasi ratio (se non quella delle positive e populiste ricadute mediatiche) da aumentare i rischi che con esse si sarebbe preteso di disinnescare. Il ricorso alla videoconferenza, infatti, risponde al criterio per cui un unico trasferimento dei detenuti imputati nel carcere di Rebibbia, cui l’aula bunker del processo è collegata da un più che sicuro tunnel, si preferiscono plurimi e cadenzati spostamenti dei detenuti dagli istituti di pena di appartenenza, sprovvisti dell’attrezzatura per le videoconferenze, ad altre carceri italiane provviste di quell’attrezzatura.
Sul più che evidente tilt logico di fronte al quale deve essersi arreso il Tribunale se, nonostante l’Anm del Lazio abbia a suo tempo risposto picche ai penalisti difendendo la scelta di far partecipare al processo gli imputati detenuti secondo videoconferenza, “perché la legge lo consente” (è singolarmente risposta che parte in automatico ogni volta che si interpella un magistrato sull’argomento), ha dato un timido segnale di apertura ai difensori della Camera penale romana, accogliendo la loro richiesta, presentata alla Procura della Repubblica, di revocare la videoconferenza per 14 imputati sebbene per tre detenuti resti prevista la sola presenza virtuale. I giornalisti ne sono venuti a conoscenza? O preferiscono continuare a concentrarsi sulle contestazioni dell’avvocatura al parossistico calendario delle udienze (quattro a settimana) e ravvisarvi soltanto uno strumento per giungere alla prescrizione e non una scelta che dietro un malinteso principio della ragionevole durata cela “il diritto al certo effetto mediatico” azzoppando, dopo udienze che si prevedono lunghissime, la necessità della difesa di prepararsi per il dibattimento successivo?
Al di là delle reali aspettative di cui la magistratura evidentemente investe questo processo, il punto fondamentale è che non dovrebbe mai rappresentare uno scandalo parlare dei diritti di difesa degli imputati e che si dovrebbe sempre usare molta prudenza nell’identificare le battaglie per la legalità processuale con la difesa del reato. “Il che, peraltro - scrive l’avvocatura romana - avviene solo nei Paesi autoritari, identificando previamente gli avvocati, e persino le associazioni che li rappresentano, con i reati di cui sono accusati gli imputati”. Così come è una impropria deformazione della realtà far regolarmente pendere sulle battaglie che i penalisti portano avanti da decenni, e va loro riconosciuto così come ha fatto Luciano Violante, insinuazioni su una loro presunta natura sindacale, mentre si dovrebbe poter ragionare dialetticamente ma civilmente sull’occasione di poter realizzare un’informazione più corretta e meno lesiva delle garanzie del singolo. Senza che nessuno intenda attentare al diritto all’informazione o rendersi fautore di alcuna censura.
Degli effettivi rischi che Mafia Capitale rappresenti nelle intenzioni di molti un nuovo esperimento di processo penale, della sua funzione esemplare già preannunciata da alcuni organi di stampa ben prima dell’emissione degli ordini di custodia cautelare (non a caso ora durissimi nei confronti delle posizioni dei penalisti e delle battaglie intraprese in nome della Costituzione e del Giusto Processo e della legalità che all’interno di ogni processo sia garanzia e tutela del dettato costituzionale) parleranno penalisti, docenti universitari, magistrati, giornalisti e rappresentanti della Fnsi il 12 novembre (alle ore 15), a Roma, in un convegno del Tribunale Dreyfus che si terrà nella sede dell’Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi di Guerra a piazza Adriana.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:21