
A pochi giorni dall’approvazione del ddl che assegna al governo il compito di regolamentare la spinosissima materia delle intercettazioni, la vicenda di “Mafia Capitale” torna ad imporre ai riflettori il tema della riservatezza delle indagini e dei diritti della difesa. Il mondo della stampa è da giorni in aperto scontro con gli avvocati penalisti della Camera penale di Roma, che il 23 settembre scorso hanno presentato un esposto alla Procura della Repubblica contro 96 giornalisti professionisti, 78 cronisti e 18 direttori per “pubblicazione pedissequa in articoli di stampa di atti, o stralci degli stessi, di un procedimento penale in fase di indagine”.
L’iniziativa dei penalisti ha, come c’era da attendersi, innescato il fuoco di fila con il mondo dell’associazionismo di categoria dei giornalisti da giorni sulle barricate per replicare e condannare una denuncia che Franco Abruzzo ha bollato come “una clamorosa violazione con la giurisprudenza della Corte dei diritti dell’Uomo di Strasburgo vincolante per i giudici italiani” e che Paolo Pirovano (Cnog) accusa di “offrire un’interpretazione distorta e gravissima non solo del diritto dei cittadini ad essere informati ma anche della libertà di stampa”.
Il sindacato cronisti romani ha invocato la difesa della libertà di raccontare gli scandali” e la Finsi coglie l’occasione per tornare ad attaccare la “delega in bianco al governo sulla delicata materia delle intercettazioni” e parla di “una denuncia senza precedenti” e di “un tentativo di imbavagliare la stampa”, puntualizzando che la gravità dell’esposto consiste nel fatto che il motivo della denuncia non riguarderebbe l’aver omesso qualcosa o aver manipolato la realtà, ma l’aver scritto troppo ed aver violato così l’articolo 114 del Codice di procedura penale (mentre l’articolo 115 Cpp considera “illecito disciplinare” la violazione del divieto di pubblicazione degli atti coperti dal segreto istruttorio).
Lo scontro, destinato a diventare incandescente dopo la controaccusa rivolta dal mondo dell’informazione ai penalisti di minacciare la libertà e il dovere di informare, si sviluppa su più piani. E ancora una volta quello del costo di un’informazione spregiudicata in termini di garanzie processuali del cittadino non sfiora minimamente la coscienza di chi opera nei media. Oltre al piano generale della tutela dei diritti degli indagati e degli imputati come anche della necessità di evitare coni d’ombra informativi sui procedimenti penali e sull’attività giurisdizionale nel suo complesso, il conflitto tra le due categorie si consuma sul piano tecnico, intorno ad una manciata di articoli del Cp e del Cpp (ed alle letture quantomeno fantasiose se non lacunose che se ne sono date) che è bene ricordare. In primo luogo l’articolo 684 del Cp che stabilisce l'arresto fino a trenta giorni o l'ammenda da cinquantuno euro a 258 euro per chiunque pubblica, in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa d'informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione. Successivamente l’articolo 114 del Cpp che vieta la pubblicazione anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto.
E ancora, il 114 vieta inoltre la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza preliminare. Anche in sede dibattimentale non è consentita la pubblicazione, anche parziale, degli atti del fascicolo per il dibattimento se non dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, e di quelli del fascicolo del Pubblico ministero. Il dispositivo dell’articolo 115 stabilisce poi che “Salve le sanzioni previste dalla legge penale (c.p. 684), prevede che la violazione del divieto di pubblicazione costituisce illecito disciplinare quando il fatto è commesso da impiegati dello Stato o di altri enti pubblici ovvero da persone esercenti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato.
Per finire, e qui sta il nodo dell’azione dei penalisti romani, l’articolo 115 impone che di ogni violazione del divieto di pubblicazione commessa dalle persone appartenenti alle categorie di cui sopra, il pubblico ministero informi l’organo titolare del potere disciplinare. La materia, a dispetto di ciò che sostiene la Fnsi, è dunque più che regolata. E sebbene il materiale inerente Roma Capitale pubblicato dai giornalisti non sia coperto da segreto è stato comunque reso pubblico prima del dibattimento. Ora, la richiesta degli avvocati è che la Procura della Repubblica informi gli Ordini ai quali i giornalisti sono iscritti, come previsto dal dispositivo dell’articolo 115 del Cpp. Questo l’obiettivo dei penalisti romani. Lo spiega l’avvocato Valerio Spigarelli, ex presidente dell’Unione camere penali e difensore nel processo per Roma Capitale: “Ci si dovrebbe vergognare di tutto questo clamore innescato come se noi penalisti mirassimo alla galera per i giornalisti, tra l’altro mai applicata per il 684 visto che con una oblazione da 129 euro il reato si estingue”.
Alla Fnsi, che attribuisce all’esposto l’obiettivo di voler perseguire i giornalisti anche in sede penale e parla di nodo normativo da risolvere liquidando come paradossale il fatto che sia censurabile sul piano disciplinare l’aver pubblicato degli stralci in forma integrale, Spigarelli replica che “non c’è alcun nodo normativo, solo molta ignoranza, noi avvocati a prescindere dai profili penali che saranno verificati e di cui non ci importa, ci limitiamo a questo: il Procuratore Capo, secondo l’articolo 115 del Cpp deve informare l’organo titolare del potere disciplinare dei giornalisti della violazione disciplinare. Perché non sono mai state segnalate queste violazioni del 114 come l’articolo 115 del Cpp vuole?”.
L’anomalia esiste e si perpetua da decenni anche dietro l’alibi che i provvedimenti per 684 (pubblicazione arbitraria) sono reati con sanzione minima e che ogni mattina alla lettura dei giornali andrebbero aperti dei fascicoli. Possibile che non sia mai stato affrontato il problema? Sì, se questa omissione garantisce la saldatura tra il diritto di cronaca (che nessuno vuole interdire, ma sulle cui modalità operative e sul cui costo in termini di violazione delle garanzie individuali e di diritto ad un processo equo bisogna iniziare ad interrogarsi) e l’interesse delle procure ad utilizzare l’informazione come collegamento tra circuiti giudiziari e stampa che seguitano a determinare un’amputazione dei diritti di tutti.
Oltre i codici l’arena in cui si sta accendendo questo scontro è sempre quello tra due diritti sacrosanti, ma in perenne conflitto. Quello alla riservatezza e a non vedersi macellati preventivamente e quello dei media di informare magari e dei cittadini di accedere democraticamente all’informazione sul funzionamento del sistema giudiziario nelle sue diverse fasi. Ad essi si aggiunge il dovere/diritto della giustizia di uscire dalla torre eburnea del silenzio, di desacralizzare il proprio ruolo assicurando la comprensione dei meccanismi giudiziari, tanto più nella fase processuale. Sul tavolo c’è però un’altra esigenza, prioritaria per tutta la durata dell’azione giudiziaria, quella di impedire che attraverso la pubblicazione prima della conclusione delle indagini preliminari di atti e materiale informativo sia secretato che non, venga compromesso il principio di oralità del processo penale.
“L’articolo 114 – spiega l’avvocato Valerio Spigarelli – anche prescindendo dalla questione del segreto pone il problema della necessaria verginità cognitiva del giudice. Un processo è diviso per fasi. Al giudice in generale è vietata l’utilizzazione di atti del Pm nella fase di dibattimento. La prova si forma in quella sede motivo per cui la norma evidenzia la scansione rispetto al potere di pubblicazione integrale degli atti di un processo. Nessuno vuole il Soviet di processi senza informazione, ma ciò che si deve vietare è che venga inquinato il processo con un’informazione unilaterale incardinata sulla pubblicazione di atti che sono esclusivamente quelli dell’accusa o del giudice delle indagini preliminari. Non è più accettabile che chi si occupa di cronaca giudiziaria si limiti al copia incolla del materiale che da un poliziotto arriva al Pm e poi ai giornalisti. Si tratta di un modo scorretto di fare informazione. Da vent’anni siamo in piena illegalità perché un conto è dare la notizia, altro è pubblicare l’atto con i virgolettati, un pezzo di informativa, o un pezzo di intercettazione. Noi diciamo che esiste una norma, l’articolo 114 del Codice di procedura penale e va applicata”.
A ben vedere non c’è nulla da disciplinare se non la disinvoltura con cui le trascrizioni delle intercettazioni e la mole di informazioni anche non congruenti ai reati in questione dalle fonti approda per vie preferenziali nelle mani dei cronisti giudiziari. La parola passa ora alla Procura della Repubblica. “A chi strepita per la libertà di stampa in pericolo – conclude Spigarelli – vorrei ricordare che la Camera penale ha, in sostanza, chiesto al Procuratore della Repubblica di inviare gli atti agli Ordini dei giornalisti per le loro valutazioni disciplinari, il che rende la vicenda surreale”.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:33