
Proprio il taxi, no! Paragonarsi a un tassista, come ha fatto Denis Verdini, per portare in dieci minuti i parlamentari transfughi del centrodestra da Silvio a Matteo, proprio non ci sta. La metafora non regge. Noi italiani siamo affezionati al ricordo di un felicissimo Alberto Sordi nei panni del “tassinaro” Pietro Marchetti, sornione e attempato romano, borghese piccolo-piccolo che srotola lungo le strade di Roma una propria, originale e saggia filosofia di vita. Niente a che vedere con la rappresentazione piratesca, da simpatica canaglia che il toscano Verdini restituisce all’immaginario collettivo. Per ciò che sta facendo, e per stare al passo con i temi della quotidianità, Denis è più scafista che tassinaro.
Chioma al vento, volto abbronzato, modi ruvidi da smadonnatore impenitente, ce lo vedi a bordo di un potente motoscafo imbarcare la folla di derelitti della politica, in cerca di futuro. Viaggio assicurato, destinazione certa: il Partito della Nazione Renziana che verrà. In fondo perché stupirsi? Oggi, con la crisi occupazionale che affligge il paese, anche quella dello scafista parlamentare può essere una proficua attività. Bisogna dirlo a quelli dell’Isfol che repertoriano i profili professionali e i mestieri emergenti: diano un codice di classificazione anche a Verdini, come da tempo lo hanno gli operatori congressuali e i promoter turistici. Ma la prospettiva che i transfughi mettano le tende in pianta stabile sulla “Rive gauche” non fa felici tutti. Pierluigi Bersani, terrorizzato all’idea di vedersela con un altro campione della congrega fiorentina, tuona, come quelle zie acide gelose dei loro gerani, che un Verdini nel giardino del Pd non ce lo vuole.
Sarebbe un “delirio trasformista”. Ora, Bersani sarà pure un esperto di filosofia visto che, da giovane, l’ha insegnata ma sulla storia è scarsino. Se avesse approfondito il tema, avrebbe scoperto che il nuovo trasformismo nella politica italiana ce lo ha portato Renzi. È sul capo del governo e segretario del suo partito che si cuce alla perfezione la celebre frase pronunciata da Agostino Depretis nel 1882, in risposta a chi lo accusava di aver snaturato il programma politico della sinistra per accogliere la destra nella maggioranza di governo: “Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?”. La scelta di Depretis di incorporare “da sinistra” istanze tipiche della destra era dettata dalla preoccupazione che, in uno stallo istituzionale generato dalla netta contrapposizione degli schieramenti tradizionali, potessero trovare spazio, nelle elezioni dell’ottobre 1882, forze politiche antisistema, ampiamente presenti nelle pieghe medie e basse della stratificazione sociale.
Corsi e ricorsi della Storia. Come ci ricorda Benedetto Croce, Agostino Depretis vinse le elezioni dell’82 con una maggioranza che egli stesso definì il “nuovo grande partito nazionale”. Al progetto aderiva il conservatore Marco Minghetti, ultimo presidente di un governo della Destra storica, “andando per troppa foga forse di là del necessario”, è il tagliente commento di Croce. Tuttavia, il passaggio da una parte all’altra degli schieramenti parlamentari rimase un fenomeno circoscritto a un “trasformismo molecolare” come a posteriori lo definì Antonio Gramsci. Comunque, coinvolse personalità di spessore con un retroterra culturale moderato, che si riconoscevano, secondo Gramsci, nel comune rifiuto ad accettare l’intervento diretto delle masse popolari nella vita statale.
Oggi, cosa avremmo? Un Renzi-Depretis e un Verdini-Minghetti? Il paragone non regge. Non perché i nostri contemporanei non siano svegli. Tutt’altro. Solo che quelli del primo “trasformismo” avevano sulle spalle il peso di fare l’Italia, questi dei tempi odierni hanno per missione l’incombenza di sbarcare il lunario familiare. Non quello degli italiani.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:31