Tentazione totalitaria  di Matteo Renzi

Arturo Diaconale affronta, nell’editoriale di ieri dal titolo “La sorte degli scissionisti del centrodestra”, un tema di “profondità” della politica italiana: il progetto renziano del Partito della Nazione. Benché l’argomento non occupi le prime pagine dei giornali, resta sotto traccia nella strategia di lungo termine coltivata dal nuovo Partito Democratico. Visti i comportamenti adottati dalla maggioranza sulla riforma del Senato non vi sono più dubbi che Matteo Renzi abbia in testa il superamento del modello di democrazia partecipata dai partiti. La sua inclinazione volge a favore del “partito-totale”, omnibus, rispetto al quale le ali estreme dell’opposizione verrebbero prima emarginate e poi, grazie agli effetti di una legge elettorale ad hoc quale l’Italicum, espulse dalla sfera del “politico” per essere relegate alla funzione, inferiore e residuale, di incanalamento della protesta nel “sociale”. Ne consegue la soppressione della dialettica dell’alternanza tra soggetti collettivi di parte.

Si fa strada l’idea che la conservazione del potere passi non più per la sfida democratica, che assume a valore la lotta politica, ma per la sedazione del sistema mediante l’annullamento progressivo dei margini d’identità che contraddistinguono i contendenti. Se questa riforma culturale andasse in porto saremmo in presenza di un nuovo tipo di “egemonia da assorbimento” che consentirebbe a una parte diventata unica di governare da sola la complessità delle dinamiche sociali. C’è un robusto pizzico di vocazione fascista che si nasconde dietro l’esaltazione dell’azione come mito fondante del “buon governo”. Nell’apologetica renziana la capacità di produrre movimento è il valore supremo che, in quanto tale, non necessita di essere preceduto e giustificato dalla estrinsecazione di una dottrina compiuta, di un pensiero politico preordinato.

Sotto questo riguardo è sorprendente l’assonanza dei toni encomiastici, usati frequentemente da Renzi e dai suoi, sulla velocità, sul “non perder tempo” nell’azione di governo, con le parole del Duce sul suo avvento. Scrive Benito Mussolini nell’Enciclopedia italiana a proposito della dottrina politica e sociale del Fascismo: “Quando nell’ormai lontano marzo 1919…io convocai a Milano i superstiti interventisti…non c’era nessun specifico piano dottrinale nel mio spirito…La mia dottrina in quel periodo era stata la dottrina dell’azione”. Questa scoloritura ideologica, riproposta con diversa motivazione nell’oggi, consente di trascendere le differenze, di rottamare le categorie concettuali di “destra” e di “sinistra”.

Ma la soppressione del conflitto partigiano è negazione della democrazia. È una contraddizione in termini dirsi di sinistra e fare cose di destra a meno che non si abbia in animo di portare il paese alle soglie di un nuovo totalitarismo. Per adesso registriamo che Matteo Renzi ha attinto a piene mani alle politiche che convenzionalmente si definiscono di destra per attribuirsi gli unici parziali successi del suo governo. È il caso del Jobs Act e presto lo sarà la decisione di tagliare la tassa sulla prima casa, sempre che gli riesca. A dissimulare la realtà, in suo soccorso, sono intervenuti i fuoriusciti del centrodestra. Essi si sono prestati al gioco di fingere una dialettica interna alla coalizione di governo per giustificare, agli occhi dell’elettorato di sinistra, le scelte di destra di Renzi. Già in precedenza gli eletti di Scelta Civica avevano seguito il medesimo percorso che li condotti in gran parte ad approdare nelle acque sicure del Pd.

È dunque una nostra fantasia rilevare la giugulare totalitarista nell’apparato circolatorio del premier? Siamo soli nell’Universo a pensarla in questo modo? Sembrerebbe di no. L’allarme per la deriva antidemocratica di Renzi, prima di noi, è stato lanciato sulle pagine di Left, la rivista della sinistra “bon ton”, da Nadia Urbinati. La politologa della Columbia University, denuncia il rischio che il renzismo si trasformi presto in un’insolita marmellata dal gusto orrendo che lei chiama “Destrinismo”. Se coloro che in queste ore, dalle sponde del centrodestra, si stanno lanciando a corpo morto tra le braccia del nuovo padrone usassero un po’ il cervello e meno il portafogli comprenderebbero il rischio di farsi complici di un delitto: la morte della democrazia.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:32