
Diego Della Valle, il protagonista più naïf del capitalismo italiano, ha compiuto un bel gesto finanziando il “punto luce” che Save the Children ha creato a Barra, quartiere della problematicissima periferia est di Napoli. Si tratta di un luogo di aggregazione nel quale i giovani possono giocare, fare sport, dedicarsi all’arte e alla lettura. La filosofia che sottende a questo genere di iniziative è chiara: utilizzare lo strumento educativo attraverso una sana gestione del tempo libero, allo scopo di sottrarre risorse umane al crimine organizzato. Le finalità lo sono altrettanto: battere la dispersione scolastica e riportare la legalità in aree di forte disagio sociale appassionando i giovani alla cultura e al rispetto di sé, senza imposizioni punitive.
È una bella iniziativa, non c’è che dire. Ma ciò che ha incuriosito, più che il progetto in sé, sono state le parole con le quali il patron della Tod’s ha spiegato il suo impegno. Sono parole importanti perché, di là dalla consapevolezza di chi le ha pronunciate, indicano una strada percorribile per la destra italiana. In passato l’elaborazione di un pensiero unitario, a destra, è stato condizionato negativamente dalla contrapposizione frontale tra la componente liberista e quella “sociale”. Gli esiti di questa conflittualità hanno generato stallo nell’azione politica e perdita di consensi elettorali. Ora Della Valle dichiara: “Non sei un imprenditore completo se non restituisci alla comunità qualcosa di quello che hai ottenuto con la tua bravura e anche con un po’ di fortuna”.
È una rivoluzione copernicana nel modo di pensare l’impresa. Il neo-liberismo di casa nostra non si è mai discostato dal “Vangelo” di Milton Friedman, l’economista padre fondatore della Scuola di Chicago e ispiratore delle politiche di Ronald Reagan e Margareth Thatcher. Per il guru del monetarismo la sola responsabilità morale dell’imprenditore sta nel realizzare il massimo profitto possibile. Della Valle, invece, lancia un sasso nello stagno che è un macigno. La parolina magica “restituzione” messa sulle labbra di un capitalista fa un certo effetto. Se l’avesse pronunciata padre Alex Zanotelli, o un qualsiasi altro missionario comboniano collegato da uno Slum di Nairobi, non avrebbe avuto lo stesso impatto.
L’idea di Della Valle è che l’imprenditore debba essere pronto a riconsiderare la natura delle componenti del profitto. Ben inteso, non stiamo parlando di beneficenza o di filantropia che sono altra cosa, ma di reimpiego di parte degli utili a beneficio della coesione comunitaria. Forzando l’interpretazione si potrebbe pensare a una forma più dinamica di capitalismo compassionevole. In realtà, l’idea non è nuova. Già Adriano Olivetti, nei lontani anni Cinquanta del Novecento, aveva tentato un’esperienza analoga. Come sostiene Luciano Gallino, Adriano Olivetti pensava che l’impresa dovesse produrre ricchezza ma anche diffondere sul territorio i risultati del successo conseguito sul mercato. Per molti anni quella visione è stata giudicata utopica.
Gli imprenditori, soprattutto i grandi, hanno invece preferito intraprendere la scorciatoia del “prendi i soldi e scappa”. Oggi, uno dei protagonisti dei “salotti buoni” del capitalismo nostrano ci spiega che un’altra via, che passi per la parziale restituzione alla comunità senza la mediazione dello Stato della ricchezza prodotta dalle imprese, è possibile. Su questa idea potrebbe aprirsi un confronto costruttivo tra componenti “liberiste” e “sociali” della destra allo scopo di trovare, nel merito, un punto di sintesi. Comunque vadano le cose, resta il fatto che, dalla vicenda ”Della Valle”, possa ricavarsi il giusto metodo con il quale affrontare il dibattito politico interno alla destra: partire dalle idee e non dalle contrapposizioni personali. Il signore della scarpa italiana ha offerto una soluzione interessante che disegnerebbe un tipo d’impresa disposta a interagire con il territorio, in vista di un riequilibrio, governato dal “privato”, delle disparità sociali. Perché allora non discuterne?
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:25