Roma: la dignità del cavallo

Roma, caput mundi. Roma oltraggiata. Roma commissariata. Roma: montagne di rifiuti-statue di degrado, scheletri di lattine-mari d’incontinenza, vetri frantumati-corpi senz’anima, cartacce-orfane di storie da raccontare; pezzi di vita lasciati marcire ai bordi dei marciapiedi. Roma: città abbandonata a se stessa, profanata dalle ubbie di un sindaco incapace che, dalle profondità caraibiche, gioca a nascondino con la città. Roma è stata lasciata sola con i suoi peggiori incubi.

La medesima solitudine dei numeri primi. Infettata dal malaffare impastato di cattiva amministrazione pubblica, negligente e connivente: mafia capitale. Carminati e Buzzi: fumetto criminale. Il suo male oscuro: la putrefazione della grande bellezza. Strade coi buchi come forme di gruviera; periferie-ghetti-deserti d’umanità. Roma: un dì superba, oggi mendicante; ballerina di fila nel grande show delle scintillanti regine della globalizzazione. Il potere dei forti e delle “prime donne” sta altrove, di qua e di là da tutti gli oceani. Cosa resta? Un tragicomico carnevale vestito da funerale per un boss della mala locale: Vittorio Casamonica. Bella compagnia i Casamonica! Una famiglia extralarge con una fedina penale lunga quanto un troncone autostradale, che celebra la morte per celebrare se stessa: orgia di pacchiana opulenza. Moderno lupercale epigono di un dio minore, plebeo, rozzo, schiavo della sua propria arroganza, i Casamonica hanno santificato a modo loro il commiato dall’anziano capo, acclamato rex unius diei, re di un solo giorno di Roma eterna; re per sempre della rustica stirpe “de Noantri”.

Cocchio regale, gigantografie del caro estinto che campeggiano sulla facciata della Chiesa Don Bosco, adattata a misura dei “Don Abbondio” dell’oggi, e forse di domani. Al suo parroco novelli bravi, in groppa a 850 destrieri ingabbiati nel cuore di fiammanti Lamborghini, hanno detto a brutto muso “questo funerale s’a da fare”. Torrenziale scroscio di bolidi di lusso; elicottero librato nel cielo sopra il suburbio tuscolano per spianare con petali di rose l’ascesa a un indirizzo sbagliato dell’anima del defunto; fanfara che suona note stonate de “il Padrino” rubate allo spartito dell’immenso Nino Rota; stuolo di prefiche ululanti a una luna che se l’è data a gambe. Osanna nell’alto dei cieli! E lo Stato? Presente! Con i suoi pizzardoni che dirigono il Te Deum dei “…tacci tua” del coro a bocca chiusa dei disgraziati risucchiati nel gorgo dello sfarzoso corteo funebre: Alleluia! Per il resto è tutto un “non sapevamo”, “non pensavamo”, “non ritenevamo” delle pubbliche autorità.

Questa è stata Roma in un giorno qualsiasi della sua storia, denudata e mostrata in pose oscene agli sguardi, malevolmente interessati, del resto del mondo. È stato il sogno di una notte di mezza estate dei Casamonica, l’occasione propizia per l’ostensione del corpo mistico di un capoclan, nel quale la sua comunità ha riconosciuto la propria unità identitaria, di lontani echi gitani. In questa Italia della multiculturalità pelosa c’è posto per tutti, anche per il kitsch. Ora il governo corre ai ripari. Un esercito di badanti- per carità! Non li si chiami commissari- terrà sotto tutela un sindaco imbelle la cui presenza in Campidoglio è stata nefasta più della grandine sui vigneti d’agosto.

Che senso ha proclamarsi onesti se poi si è dei buoni a nulla? Ma sul groppone di questa sventurata Italia renziana resta l’impronta di quel funerale. Cosa si salva da questo affresco postumo del greggiano pittore Teomondo Scrofalo? La sobria maestosità dei cavalli del carro funebre. Alti, imponenti, eleganti, disciplinati e seri nel loro pietoso ufficio di necrofori sono stati una macchia di dignità in una chiassosa rappresentazione spogliata di ogni misura. Forse è proprio come dicono: un cavallo ci salverà.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:37