
L’ergastolo ostativo è stato il tema centrale affrontato nell’ultimo recente direttivo di “Nessuno Tocchi Caino”. Un argomento delicatissimo di cui è urgente parlare proprio in previsione della riforma dell’ordinamento penitenziario e del confronto avviato con gli Stati generali delle carceri . Perché non ci si dovrebbe mai stancare di ricordare che la pena, la condanna del reo, anche volendo attenersi semplicemente alla nostra Carta Costituzionale, deve avere un fine riabilitativo e mai vendicativo, come al contrario si verifica nel nostro sistema di esecuzione della pena. Alcuni docenti universitari, costituzionalisti, avvocati, oltre a Marco Pannella, Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparuti, Rita Bernardini, hanno avviato nella sede del Partito Radicale una seria riflessione sulle attuabili strade per superare l’articolo 4 bis, ritenuto una mostruosità dell’ordinamento penitenziario. Ma hanno anche riproposto all’attenzione l’altro orrore del 41bis, il regime carcerario di rigore di cui non si rispetta quasi mai la natura temporanea così come sarebbe previsto ma che troppo spesso diventa regime permanente in quei casi in cui i detenuti rifiutino il ricatto di condizionare alla collaborazione con la giustizia, alla confessione e alla delazione la possibilità di evitare di attendere la propria morte all’interno di un carcere con un’ora d’aria al giorno. Ne parliamo con l’avvocato Maria Brucale della Camera Penale di Roma, da sempre attenta a quest’emergenza e che al direttivo di Nessuno Tocchi Caino ha preso parte.
L’ergastolo ostativo è la pena maggiormente in conflitto con il valore rieducativo che l’espiazione dovrebbe avere secondo la nostra Carta Costituzionale. Questa condanna in cui l’avvenire viene confinato nel passato non è inquadrabile costituzionalmente…
“La norma preclude a chi ha commesso determinati reati (cosiddetti reati ostativi), tra cui, primi, i reati associativi, l’accesso ad ogni beneficio penitenziario ed alla liberazione condizionale, salvo che collabori con la giustizia o che la sua condotta collaborativa sia divenuta inutile o inesigibile. L’ergastolo per i reati contemplati dall’articolo 4 bis O.P. si espia per intero. È la morte viva, l’assenza di aspirazione di recupero, di reinserimento o di rieducazione, di proiezione, la sottrazione di qualsivoglia anelito di cambiamento, è apparenza di vita. Il “fine pena mai” o 9999, come si trova scritto ormai negli ordini di esecuzione pena emessi dalle Procure rappresenta la suggestione del numero periodico che si ripete all’infinito; l’indicazione di un tempo che non può arrivare. L’ergastolo ostativo è, dunque, vistosamente incostituzionale. Chi subisce una condanna deve poter dare una proiezione alla sua speranza, individuare un obiettivo certo cui tendere, credere che avrà un’altra opportunità. Neppure il rimorso trova spazio in una pena senza fine; perde ogni utilità l’introspezione, la revisione critica del sé. Altro che rieducazione! Non ha senso la riabilitazione se non ci potrà mai essere restituzione alla società”.
Sull’ergastolo ostativo come si è pronunciata la convenzione Edu? Prevede articoli che esprimano dubbi o ne condannino l’esistenza? E la Carta di Strasburgo?
“Si è soffermato sul tema nel corso del direttivo il professor Davide Galliani dell’Università degli Studi di Milano, coordinatore di un prestigioso progetto di ricerca intitolato “The right to hope. Life Imprisonment in the European Context”, cofinanziato dall’Unione europea. “Gli articoli della Convenzione verso i quali l’ergastolo ostativo all’apparenza sembra suscitare perplessità sono il n. 3 (pene inumane e degradanti), il n. 5 (legittimità della detenzione rispetto alla sentenza di condanna), il n. 6 (equo processo), il n. 7 (legalità penale, qualità della legge, prevedibilità) e forse anche il n. 14 (divieto di discriminazioni). Possibili violazioni tra di loro differenti, ma rette da un medesimo filo conduttore: la problematicità dell’automatismo legislativo che rende inumana e degradante e illegittima una pena “senza più colpevolezza”, pena tra l’altro difficilmente prevedibile prima di commettere un reato e nella quale svolgono un ruolo di particolare importanza i pareri di soggetti non giurisdizionali (organi requirenti, comitato ordine pubblico e sicurezza), senza considerare le discriminazioni di fatto nei confronti degli ergastolani ostativi. In ogni modo, la Corte di Strasburgo non si è mai pronunciata nello specifico su alcun automatismo legislativo che precludeva l’accesso alle misure alternative, anche perché, non avendolo fatto nei confronti dell’Italia, non poteva certo farlo verso altri Stati del Consiglio d’Europa, non avendo paragoni il nostro articolo 4 bis ord. pen. Nonostante questo, dopo la sentenza Vinter c./Regno Unito del 2013, vi è stato il caso Trabelsi del 2014, nel quale la Corte ha giudicato contrario all’articolo 3 il Life Imprisonment federale degli Stati Uniti, che era riducibile solo in tre circostanze: la grazia e la commutazione presidenziale, motivi di salute e la collaborazione con la giustizia pre e post sentenza, su mozione al giudice del Governo”.
Molti ergastolani ostativi, peraltro, sono reclusi in regime di 41 bis con ulteriori pressanti limitazioni. C’è un limite temporale alla soggezione al regime di rigore considerando i devastanti effetti che ha sulla salute, anche mentale, del detenuto la permanenza in condizioni di isolamento?
“Il 41 bis è nato come misura emergenziale per rispondere alla ferocia delle stragi di Capaci e di via D’Amelio ma la sua presenza nell’ordinamento è diventata immanente e attraverso due riforme normative, nel 2002 e nel 2009, ha attinto una più ampia categoria di reati. In linea teorica, il perdurare delle condizioni di pericolosità del soggetto che renda legittima la sua soggezione alla carcerazione differenziata, dovrebbe essere verificato in termini di attualità ogni due anni ma la realtà è che opera una sorta di presunzione sine die che raramente consente a chi è entrato in 41 bis di uscirne. Nessun limite temporale, dunque, a fronte di una serie indefinita di privazioni e di vessazioni che appaiono biecamente punitive e quasi mai rispondono a logiche effettive di sicurezza: gravi compressioni alla possibilità di leggere, informarsi, studiare; di dipingere, disegnare; impossibilità di cucinare; interruzione pressoché totale delle relazioni con i familiari; limitazioni nel vestiario, nella ricezione di pacchi dall’esterno; accesso all’aria una sola ora al giorno, in uno spazio asfittico e senza cielo; soggezione a censura della corrispondenza e tempi indefiniti per comunicare con i propri affetti; negazione del criterio della territorialità e dunque reclusione in luoghi molto lontani da quello di residenza dei familiari e imprevedibilità dei trasferimenti. Una simile, ininterrotta, aberrante negazione della sfera individuale e della sua possibilità di esprimersi, non può non tradursi in una sorta di deprivazione sensoriale, in un nichilismo che è coatta negazione quotidiana del sé”.
È di tutta evidenza che infliggere questo tipo di pena a chi non collabora con informazioni o confessioni rappresenta una forma di tortura.
“È una forma di tortura, indubbiamente. Lo è in sé la sottrazione della speranza e l’attesa della morte come stillicidio di un tempo che scorre senza immagini nuove. Lo è assai di più se, come nel 41 bis, ti è tolta anche la possibilità di tentare di offrire spazi vivi alla tua mente. Il Comitato anti-tortura del Consiglio Europeo, già nel novembre 2013 aveva intimato all’Italia di adottare le misure necessarie per assicurare che tutti i detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis potessero usufruire di una più vasta gamma di attività mirate, trascorrere almeno 4 ore al giorno al di fuori delle proprie celle, insieme agli altri detenuti presenti nella stessa sezione; accumulare le ore di colloquio a loro spettanti di diritto e non utilizzate; telefonare con maggiore frequenza, indipendentemente dal fatto che avessero o meno effettuato il colloquio mensile. Nulla, però, è cambiato”.
Cosa prevede o sostiene la convenzione Onu? E la nostra Carta Costituzionale?
“Secondo la Convenzione Onu si tratta di tortura: qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenza forti, fisiche o mentali al fine di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni. La nostra Costituzione ripudia la pena contraria al senso di umanità e che mortifichi la dignità del condannato. Citando il professor Andrea Pugiotto, illustre costituzionalista, relatore nell’ambito del direttivo, “La Corte Costituzionale supera le doglianze di stridente incostituzionalità di ergastolo ostativo e regimi detentivi esasperatamente afflittivi, ritenendo il detenuto ostativo libero di offrire la propria collaborazione per superare gli ostacoli normativi. Ecco la clamorosa finzione! È davvero libero un uomo cui sia prospettata l’alternativa tra fornire dichiarazioni auto ed eteroaccusatorie o aspettare di morire murato vivo in carcere? Di quale libertà si parla se poi anche il regime detentivo è quello duro del 41 bis? È evidente che la vessazione è parte di un ingranaggio attivo dell’investigazione”.
Al momento l’unico strumento di battaglia sono i ricorsi. Quale bilancio rispetto a quelli presentati alla Corte Europea dei Diritti Umani?
“Come ha spiegato il professor Galliani, ad oggi il tema della compatibilità dell’ergastolo ostativo con la Convenzione Europea non risulta affrontato direttamente. Le pronunce che ha citato, tuttavia, rivestono una estrema importanza per l’ordinamento interno. La sentenza “Vinter c. Regno Unito”, qualifica l’ergastolo senza possibilità di revisione della pena come violazione dei diritti umani, poiché l’impossibilità astratta della scarcerazione è trattamento degradante e inumano contro il prigioniero. L’ergastolo è in sé, dunque, inumano e degradante se, come per i reati ostativi, non contempla alcuna possibilità di accesso al trattamento rieducativo, con la proiezione di tornare in libertà, diversa dalla collaborazione con la giustizia. La pronuncia successiva, Trabelsi c. Belgio, sembra offrire uno spiraglio interpretativo luminoso: contrario ai diritti umani è in sé il condizionare alla collaborazione con la giustizia (troppo spesso opportunistica delazione), l’accesso alla gradualità del reinserimento in società. La pena, nel tempo, deve poter essere rivalutata in termini di perdurante utilità e rispondenza ai suoi scopi originari. Ove il condannato abbia raggiunto la rieducazione, fine ultimo di qualunque carcerazione, deve essere restituito alla società”.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:34