
I sismografi della politica registrano una parossistica agitazione del deputato Denis Verdini. Dicono i rumors che stia lavorando al reclutamento di una pattuglia di “amici di Renzi” tra i fuoriusciti e gli indecisi del centrodestra. È prevedibile che nei prossimi giorni assisteremo alla dipartita di un altro pezzo di quello che un tempo è stato il corpaccione onnivoro di Forza Italia.
Per i fedelissimi di Silvio Berlusconi si tratterebbe di un vile tradimento ideato da chi, avendo avuto tanto, giri le spalle al suo “alto fattore” per andare ad accucciarsi ai piedi di un nuovo padrone. Non c’è niente di nobile, e di alto, negli intrighi di palazzo. Verdini e i suoi si preparano a correre in soccorso di Matteo Renzi per assicurare il prolungamento di una legislatura esausta. Tuttavia, di là dalle facili insinuazioni che il caso Verdini evoca, il voltafaccia di rappresentanti eletti con il centrodestra pone un problema di tenuta democratica del nostro Paese. Cerchiamo di spiegare il perché. È arcinota la crisi della partecipazione dei cittadini al voto. Se ne conoscono gli effetti, meno le cause.
L’astensionismo in genere è il primo segnale di un disagio reale vissuto individualmente dall’elettore. È anche la modalità più efficace mediante la quale l’uomo della strada urla alla politica il suo: non ci sto! Non è certo il mezzo più corretto per realizzare il cambiamento, tuttavia serve la causa di una ribellione silenziosa, non violenta, individuale di coloro i quali scelgono di fare sentire la propria voce mancando all’appello. E sono gli stessi che denunciano, con la propria assenza, di non credere più nella validità del mandato parlamentare. Oggi la crisi del binomio eletto-elettore riguarda il venire meno del rapporto fiduciario. Certamente la decisione di adottare il voto di lista che sottrae il candidato all’obbligazione diretta con il suo elettorato non ha aiutato la causa del parlamentarismo.
Se poi il cittadino percepisce che la sua collocazione politico-ideologica possa essere ulteriormente vulnerata dalla decisione insindacabile dell’eletto di disattendere al patto elettorale è comprensibile che, prima o dopo, egli smetterà di considerare la rappresentanza quale fondamento della democrazia parlamentare, per appassionarsi a forme non intermediate di partecipazione alla cosa pubblica. Perché dovrebbe scomodarsi a votare per qualcuno che, il giorno dopo, si schiera dalla parte opposta del campo al quale egli sente di appartenere? Sono dunque i continui cambi in corsa tra le cause principali dell’astensione. Come porvi rimedio? La nostra Costituzione all’articolo 67 recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Quando venne scritto dai padri fondatori della Repubblica esisteva un’altra Italia e, soprattutto, si era immersi in un mondo molto diverso dall’attuale. L’uscita dalla guerra e dalla dittatura aveva inciso non poco sulla decisione di non sottomettere gli eletti del popolo alla tirannia delle burocrazie partitiche, ma di consentirgli di agire per il bene della nazione in totale libertà di coscienza. Fu un’opportuna precauzione, sebbene inutile.
Durante la Prima Repubblica i casi di cambiamento di casacca durante la legislatura furono rarissimi. È con la Seconda Repubblica che il fenomeno dell’incoerenza nell’esercizio del mandato parlamentare diventa prassi consolidata. Se davvero si volesse affrontare con serietà il problema basterebbe rimettere mano all’articolo 67 prevedendone una formulazione più stringente. Qualcuno obietterà che si rischia di profanare uno dei più sacri dogmi del pensiero liberale. Sarà pure vero, ma cosa ce ne faremmo di un Parlamento–simulacro di democrazia? È forse tornato il tempo dei falsi idoli?
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:37