
Domenica i francesi hanno risposto con una marcia a un deliberato atto di guerra. Chapeau! Il mondo ha toccato con mano la capacità di un popolo di ritrovarsi unito nell’ora drammatica dell’attacco jihadista. In piazza c’era la Francia, orgogliosa e fiera della sua identità di popolo e di nazione. Nonostante tutto. Nonostante la meschina figura di Francois Hollande, un piccolo uomo, che ha cercato di fare cassa elettorale tenendo fuori dall’iniziativa Marine Le Pen. Nonostante l’ipocrita presenza di personaggi della politica globale che con le loro dissennate scelte si sono resi complici inconsapevoli del fondamentalismo islamico.
Nonostante la debordante retorica pacifista che ha cercato di piegare la realtà a sostegno della propria menzogna buonista. Tuttavia, una volta spenti i riflettori su un atto la cui valenza è stata simbolica, resta in piedi per intero la domanda: che fare? L’atto bellico contro “Charlie Hebdo” e tutto ciò che ne è conseguito è solo l’inizio della strategia jihadista che proseguirà orientandosi verso nuovi obiettivi. Il nemico non è più invisibile, come un tempo, ma si è fatto carne e sangue. E suolo. L’Occidente ha il dovere morale di difendersi. Come? La risposta deve essere portata sul terreno dello scontro bellico. Ha ragione Berlusconi. Bombardare dal cielo l’Is, lo Stato Islamico, non è sufficiente.
Occorre schierare sul campo una forza multinazionale che agisca contemporaneamente su tre fronti diversi: l’area curdo-siriano-irachena, la Libia e le provincie nord-orientali della Nigeria. Questi sono i target da colpire per stroncare in radice il tentativo egemonico del nuovo califfato. La seconda Guerra Mondiale fu combattuta su un numero ben superiore di fronti che coinvolsero quasi tutti i continenti. Non si comprende del perché possa spaventare la relativa ampiezza di un odierno intervento che si concentra pur sempre in aree geografiche circoscritte. Perché il successo sia rapido e pieno è necessario aiutare il mondo islamico a riflettere su se stesso per decidere in quale modello politico-religioso riconoscersi.
Come ha coraggiosamente suggerito di fare il presidente egiziano Al-Sisi rivolgendosi ai vertici religiosi dell’Università al-Azhar Non è più il tempo in cui si possa consentire a chiunque di tenere un piede in due scarpe. Scelgano, soprattutto i regimi della regione mediorientale e del Golfo Persico, se stare da una parte o dall’altra. Non è più accettabile che certi Stati islamici continuino a fare affari con l’Occidente, traendone grandi ricchezze, e, allo stesso tempo, facciano da bancomat allo jihadismo perché sparga morte e distruzione in nome di Allah. E questo vale ancor più per gli ipocriti del blocco occidentale i quali, pur sapendo perfettamente con chi avevano a che fare, non hanno mosso un dito per cambiare le cose.
Ma non basta. L’Occidente deve ritrovare la sua unità. Mosca non è più il covo del nemico. Nessuna coalizione potrà avere la meglio sulle pretese del fondamentalismo islamico se, in prima linea, non vi sarà schierata anche la Russia a difendere le ragioni della nostra comune civiltà. Oggi i queruli governanti italiani tremano all’idea che l’Europa possa decidere di rivedere “Shengen” imponendo restrizioni alla libera circolazione delle persone tra i paesi aderenti al trattato. Hanno paura che Bruxelles ci dica chiaro e tondo che la storia dell’accoglienza dei migranti clandestini senza alcun controllo deve finire. Se ne facciano una ragione a Palazzo Chigi e al Viminale, quella porta spalancata sul Mediterraneo è un pericolo e va chiusa. Il mondo dopo “Charlie” non sarà più lo stesso. E’ in gioco il futuro della nostra civiltà. I governanti dell’Occidente, quel futuro, sappiano trattarlo con cura perché è prezioso. Viene da lontano. E non intendiamo buttarlo alle ortiche.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:20