
Matteo Salvini suscita scandalo per ciò che dice e per come lo dice. A molti le sue idee fanno paura. E’ naturale che sia così. C’è, fuori dal “palazzo”, una realtà fatta di crisi sociale ed economica che è spaventosa. Salvini la interpreta. Nel linguaggio, che è ruvido ma efficace. Nella rappresentazione estetica, che è coerente col momento.
Felpe e magliette da cassintegrato, barba scomposta, capigliatura arruffata e look da militante di base reduce da un volantinaggio di quartiere, piuttosto che grisaglia e cravatta d’ordinanza. Potrebbe uno così rappresentarci tutti? E perché no? Parafrasando Erasmo da Rotterdam, se gli impeccabili bocconiani, con tanto di master ad Harward, ci hanno scaricato in questa palude, perché temere uno che sembra uscito di fresco dai mercati generali? Sarebbe fin troppo facile sostenere che c’è molta più vita, e saggezza, in strada tra la gente comune che in certi ambienti accademici dalle atmosfere talmente rarefatte da puzzare di stantio. E’ rivoluzionario, in senso liberale, pensare che non sempre la forma sia sostanza. Chiediamoci se Salvini abbia un progetto politico convincente.
L’operazione che ha avviato in questi mesi non va sottovalutata perché offre una prospettiva di cambiamento culturale. Non è un caso che abbia chiamato a raccolta per una riflessione collettiva gli intellettuali in circolazione a destra. Era dal tempo di “Ideazione” e delle cene di Arcore del primo Berlusconi con Lucio Colletti, Antonio Martino e Giuliano Urbani che, a destra, non si vedeva una cosa del genere. In effetti, è in atto un processo di revisione, all’interno del partito che fu di Bossi, di un’ampiezza che supera la contingenza. Salvini è consapevole che la Lega delle origini fosse figlia, e non nemica, della globalizzazione. Il crollo del centralismo statale, superato dall’evoluzione transnazionale di un capitalismo bisognoso di luoghi di regolazione sovraordinati agli Stati nazionali Otto/novecenteschi, aveva liberato gli “spiriti animali” del localismo identitario.
E’ così che è nata la Lega padana secessionista e nemica giurata di “Roma ladrona”. Oggi, che il suo movimento si propone di riorientarsi combattendo al fianco di Marine Le Pen gli effetti della mondializzazione sui “vinti della Storia”, il capo leghista deve conquistare la dimensione nazionale per garantire successo alla sua battaglia. La scelta di Salvini di guardare al resto d’Italia non attiene alla tattica elettorale ma al riposizionamento strategico di un’intera area alla quale corrisponde un nuovo blocco sociale. Nell’orizzonte salviniana compaiono i ceti produttivi tradizionali, massacrati dalla globalizzazione, che fanno sintesi con i lavoratori, salariati e atipici, espulsi dal mercato del lavoro da quello stesso sistema di produzione del profitto che, negli anni Ottanta, prometteva pace, benessere e ricchezza per tutti. Se non è più la lotta di classe a funzionare da collante contro il “capitalismo di carta” del mercato finanziario globale, allora è l’identità nazionale che ne diventa punto di fusione. Nella visione salviniana non c’è decrescita felice ma la percezione della fabbrica come luogo di ricomposizione del conflitto sociale e di riconoscimento identitario della comunità. E’ bene che, a destra, si comprenda ciò che sta accadendo nella Lega e non ci si fermi a osservare la superficie.
Quello innescato da Salvini è un processo. Richiederà del tempo e dovrà passare per una revisione del giudizio storico sul Mezzogiorno d’Italia. Gli suggeriamo una nuova “Quarto”. Rifaccia il percorso di Garibaldi e dei “mille”. Riparta, con le sue camicie verdi, dal Sud per convergere al Nord, cancellando quelle molte ombre che accompagnarono, centocinquant’anni fa, la spedizione delle camicie rosse. Restituisca al popolo meridionale l’onore che la propaganda dell’epoca gli tolse. Per puntare l’obiettivo della resistenza allo strapotere imperante di Bruxelles, Salvini ha bisogno di avere dietro l’intera nazione, non soltanto uno spicchio di essa. Saprà il terragno segretario leghista sovvertire il destino del centrodestra nel tempo storico del dilagante renzismo? Stando alle reazioni che si colgono in giro, sembrerebbe una domanda politicamente scorretta da porsi. Nelle salette d’attesa di palazzo Grazioli fa scandalo la sola idea che sia lui a prendere la leadership della coalizione.
Ma, fuori dal “palazzo”, il popolo di destra ugualmente gradirebbe una risposta. Perché allora non accontentarlo?
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:18