
Matteo Renzi, dopo l’ultima direzione del suo partito, si sente un Clark Kent che non riesce a tenere segreta la vera identità di Superman. Mena vanto per avere asfaltato la vecchia guardia dei reduci del Partito Comunista. Questo è il film.
Ma è proprio così che è andata? Non dimentichiamo che la politica è il luogo dove nulla è come appare. Attenti, dunque, a darli per morti e sepolti. Potrebbero sorprendervi. Proviamo a riflettere. Per farlo dobbiamo porci una domanda: perché diamine due attempati signori, ancora venerati da una fetta importante degli iscritti e degli elettori del Pd, hanno pensato bene di prestarsi a farsi schiaffeggiare in diretta streaming dal ragazzo insolente di Rignano sull’Arno? Visti i numeri sfavorevoli avrebbero potuto starsene al coperto durante la scontatissima direzione del partito per poi scatenare, mediante la pattuglia dei fedelissimi, un “Vietnam” parlamentare durante l’iter di approvazione del Jobs Act. Non l’hanno fatto preferendo esporsi. Perché? Entrambi non sono degli sprovveduti.
Bersani e D’Alema hanno studiato sui testi di Karl Marx e di Friederich Engels. Forse non conoscono come Renzi la preghiera del boy scout, ma sanno perfettamente cosa sia il materialismo dialettico e ancor meglio ne conoscono le implicazioni nella formazione dei processi decisionali. I due sono pienamente consapevoli della necessità, per il divenire storico del socialismo, di adeguare i parametri di definizione della lotta di classe a una società nella quale i rapporti tra capitale e lavoro sono profondamente mutati.
Per affermare una proposta innovativa in ordine alla ridistribuzione sociale della ricchezza prodotta dal Paese entrambi sanno che occorre avere un elemento dialettico endogeno di segno negativo – un’antitesi – che si contrapponga a una tesi. Soltanto così è possibile produrre, in una visione autenticamente marxista del divenire, una sintesi avanzata. Negli ultimi venti anni ciò non è stato possibile perché la presenza, a destra, di un blocco consolidato ha obbligato la sinistra a fare muro. Questa posizione ha condotto a preferire quello che nel gioco degli scacchi si chiama lo stallo. La logica manichea, tipica del binomio assiologico amico/nemico, ha prevalso sullo strumento democratico del dialogo costruttivo.
La conseguenza è stata, nella vita della “seconda repubblica”, l’immobilismo della politica, surrogata nella gestione della cosa pubblica dalla tracimazione di altri poteri concorrenti come la magistratura, le burocrazie o i mercati. Oggi, che la situazione appare mutata D’Alema e Bersani sono coscienti che vada rimessa in movimento una dialettica di sistema che la sinistra stessa governi e non che ne sia vittima. Sono consumati uomini di partito per i quali non conta il destino del singolo quanto la causa. Ora, Bruxelles e Berlino hanno messo alle corde il nostro governo chiedendo, con toni perentori, l’avvio di una stagione di riforme necessarie ad armonizzare l’economia italiana con le altre economie dell’Unione.
Non si tratta di una trasformazione qualsiasi, purché vi sia. Ciò che si chiede all’Italia è di compiere scelte in materia di finanza pubblica e di mercato del lavoro di stampo liberale, se non propriamente liberista o, come direbbe Giulio Tremonti, mercatista. Obbedire a questo diktat comporterebbe il suicidio politico della sinistra. Come evitarlo? Ad esempio, mettendo su una riforma del lavoro gattopardesca, nel senso di dare l’impressione di cambiare per non cambiare niente. Questo è il Jobs Act che avremo fra qualche tempo. Ma come renderlo credibile agli occhi degli europei? Creando un falso bersaglio contro il quale scagliarsi e vincere. Renzi si è ricordato dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Un vecchio arnese che però ha sempre stimolato la fantasia del popolo rosso. Per essere creduto il nostro premier deve poter dimostrare che la sua proposta è avversata da una parte significativa del suo stesso schieramento. Qui entrano in scena i due vegliardi. Se Renzi è chiamato a incarnare la tesi, loro si immolano a interpretare l’antitesi, perché la sintesi che ne deve scaturire sia esattamente il nuovo punto avanzato della sinistra sulla fondamentale questione del mercato del lavoro. D’Alema, per non smentire la sua fama di oratore urticante rispolvera perfino l’obsoleta contrapposizione concettuale tra padroni e operai. I due vecchi leader si prendono la loro dose di legnate e si ritirano in buon ordine.
Questo significa avere pieno senso della disciplina di partito. Etica del sacrificio. Chapeau! Morale della favola: si farà un finta riforma del lavoro che cambierà le cose solo per indirizzarle ancor più nel senso desiderato dal socialismo militante, vivo e vegeto nel Pd. Però, agli occhi del mondo sembrerà come la buona novella della visione liberale. La prova? Chi dubiterà del fatto che sia passata sotto il fuoco dei vecchi arnesi del defunto Pci in uno scontro epico? Sarà il 29 settembre di Matteo Renzi, che resterà nella storia. Come Austerlitz per Napoleone. D’Alema e Bersani non saranno celebrati dalla agiografia ufficiale.
Per loro niente busti ai giardinetti. Saranno, però, ricordati come eroi tra le mura domestiche. Come i caduti in missione della C.I.A. che al posto del nome hanno una stella al Memorial Hall, nel quartier generale di Langley.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:16