
Ci perdonerà Matteo Renzi se proprio non riusciamo a condividere il suo spavaldo ottimismo. Tanta sicumera ci appare del tutto inappropriata osservando la realtà. Non si tratta di essere gufi. Ma neanche siamo allocchi. Il nostro pessimismo trova fondate ragioni nella condizione degli italiani, in generale, e della destra politica, in particolare. In primo luogo, le stime fornite dall’Istat sull’economia del Paese confermano ciò che sapevamo e che solo gli illusi o i partigiani renziani potevano negare. L’Italia, dal punto di vista del sistema produttivo, è un Paese morente. Una manovra aggiuntiva per la correzione dei conti di finanza pubblica sarebbe soltanto l’ennesimo colpo di vanga scagliato sulla testa degli italiani.
Il fatto che si annunci qualche piccola riforma, o si ritocchi qua e là la normativa per aiutare la crescita, non serve. Anche i bambini sanno che non ci si risveglia dallo stato di coma vegetativo ingoiando aspirine. L’Italia ormai è stretta in una morsa mortale tra le politiche di austerity imposte dall’Europa e la propria ancestrale incapacità a fare a meno di un apparato statale-burocratico che annienta la voglia di intraprendere anche nei più volenterosi. A ciò si aggiunga la scelta di fondo di una classe di governo che ha inteso favorire, attraverso una politica fiscale a dir poco demenziale, la rendita rispetto agli investimenti. La maggioranza delle micro e piccole imprese, ancora in vita, che un’idea da sviluppare l’avrebbe, deve fare i conti con la quasi estinzione del meccanismo del credito.
Dopo “Basilea 3”, i requisiti grazie ai quali ottenere un’ adeguata classe di merito –un rating- che consenta l’accesso ai finanziamenti creditizi, sono pressoché proibitivi. Per un imprenditore entrare in banca in questo momento a chiedere sostegno finanziario è come per un cittadino recarsi in ospedale e trovare alla porta un cartello che dica: “ Vietato l’ingresso ai malati”. Per rimettere di nuovo in piedi il Paese non basta più una scossa di assestamento, è necessario un sisma di magnitudo di intensità 8 della scala Richter, perché si sia costretti tutti insieme a ricostruire dalle fondamenta, con altro spirito e con altre regole.
A partire dalla ricollocazione geopolitica dell’Italia la quale, negli ultimi tempi di non-politica estera dei governi Monti, Letta e Renzi, ha assunto di fatto una posizione ancillare rispetto alla politica suicida praticata dall’asse di traino germanico-americano, che ci sta conducendo alla rovina. Nel quadro più ampio della crisi del Paese si innesta, poi, la condizione di forte disorientamento di cui è preda la destra. Ben inteso, il disagio non trova radici nelle contorsioni politiche e personali di personaggi all’Alfano. Quel che fanno e dicono gli esponenti di Ncd è del tutto ininfluente. Il problema è ben più profondo.
E serio. Sebbene la destra abbia una matrice plurale, perché generata da un pensiero eterogeneo, tuttavia è stato possibile identificare alcuni tratti connotativi che hanno funzionato da comune denominatore per tutte le sue declinazioni. Sono i cosiddetti “valori perenni”, come li definiva Giuseppe Prezzolini, il padre nobile del conservatorismo italiano del Novecento, cioè quegli elementi naturali e fondamentali della società che l’uomo di destra considera alla stregua di parametri vitali, indicatori di sopravvivenza di una civiltà. La proprietà privata, la famiglia, la patria e la religione. A ben vedere, nel tempo storico della “società liquida” di cui parla Zygmunt Bauman questi assiomi, iscritti nel Dna di una parte della comunità, sono stati in assoluto i più vilipesi e messi in discussione.
Anche la religione, intendendo per essa l’aspirazione alla sacralità dell’esistenza, non ha fatto eccezione. Lo diciamo da laici che riconoscono, comunque, al cristianesimo una funzione costitutiva nella coscienza profonda della civiltà occidentale. E’ da tutto ciò che deriva il nostro pessimismo. Esso non attiene semplicemente alle sorti di questo o di quel governo, ma guarda alla sopravvivenza di un sistema sociale che, per quanto fallace, carente, disarmonico e, spesso, ingiusto resta pur sempre il nostro sistema. La civiltà in cui siamo nati e intendiamo restare. Lo vogliano o no tutti i nostri nemici. Comprenderete perché questo Renzi, più sembiante a un Romolo Augustolo che a un novello Cesare, non ci piace e non ci convince. Oggi si tratta di stringere i denti nell’attesa, speriamo non vana, di riprenderci il nostro futuro. Ci appartiene.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:18