
Quale ex rappresentante istituzionale dell’avvocatura romana e nazionale non posso non condividere il grido di dolore e di protesta del quale in questi giorni sono protagonisti i giornalisti costretti ad accettare condizioni contrattuali debilitanti (o meglio, vergognose), ma debbo fare doverosamente una precisazione. A differenza, ma non tanto, della categoria professionale alla quale appartengo da cinquant’anni, contraddistinta dall’autonomia che dovrebbe essere la linea guida della professione più nobile e libera del mondo, com’era qualificata fino a non molto tempo fa, la professione del giornalista, tranne casi molto rari come quello che contraddistingue il grande liberale Arturo Diaconale, viene svolta al servizio non tanto dell’editore quanto del marcio sistema politico che da tanti anni a questa parte vessa il popolo italiano, contraddistinto dalla partigianeria di gran parte delle testate che, più che informazione e commento oggettivo a tutti gli avvenimenti, si distinguono per la tutela di interessi politici contrapposti e di interessi economici che sono conflittuali tra i vari editori.
Mi chiedo e vi chiedo, “La Repubblica”, il cui editore è un certo Carlo De Benedetti nemico giurato di Silvio Berlusconi, è un quotidiano indipendente come si definisce o vende ancora tante copie solo perché soddisfa quei lettori, uomini e donne in particolare, che vedono in Berlusconi l’immagine del diavolo o del depravato processato per il reato di prostituzione minorile in danno di Ruby? È forse il “Corriere della Sera” un quotidiano indipendente, se è gestito da tantissimi anni nell’interesse dei cosiddetti poteri forti? A me sembra di no. Come non è un quotidiano indipendente “Il Giornale” fondato dal grande Indro Montanelli, ma oggi di proprietà della famiglia Berlusconi. Ma gli esempi sono davvero tanti che indicarli costituirebbe un esercizio ripetitivo specie per i lettori de “L’Opinione”, viceversa espressione di un sentimento liberale e liberista che fa onore alla testata più antica d’Italia.
Non ho annoverato ovviamente gli storici giornali di partito che traggono la loro fonte economica non solo dai contributi all’editoria ma anche dal finanziamento ai partiti, vuoi pubblico vuoi privato, per ovvi motivi di appartenenza ideologica da parte di giornalisti schierati. Infatti è normale che tale tipo di informazione debba essere diretta ai cittadini che sono schierati politicamente. Il sindacato dei giornalisti, da sempre schierato a sinistra, si è mai chiesto il motivo per il quale pochissimi cittadini, a differenza di un tempo non molto lontano, il mattino prima di andare al lavoro non si fermano più all’edicola per comprare il giornale? Le ragioni, a mio sommesso parere, sono due. La prima, perché non riescono a trovare l’articolo di fondo utile a soddisfare la loro curiosità sull’avvenimento particolare, sia di politica che di cronaca; qualcosa che possa stimolare il loro interesse culturale. La seconda è rappresentata dall’invasione televisiva nelle case degli italiani, foriera, spesso e volentieri, di una confusione che è sotto gli occhi di tutti ma che è molto utile per gli interessi economici dei proprietari delle tante reti televisive.
Ma vi è tra la professione di avvocato e quella del giornalista una similitudine al ribasso, rappresentata dalla ormai non più sopportabile tumefazione dei numeri che porta come conseguenza ineludibile il degrado culturale da un canto e la depressione economica dall’altro. Il risveglio del popolo italiano, che non potrà realizzarsi fin quando i nostri rappresentanti politici sono quelli attuali, non lo vedremo fino a quando le professioni intellettuali più libere del mondo non prenderanno consapevolezza del loro attuale infimo stato e con orgoglio non assumeranno la doverosa iniziativa di trasformare radicalmente, in nome del pensiero filosofico liberale, il loro status attuale. La speranza, ma forse mi illudo, è l’ultima a morire.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:04