
Nella puntata di “Omibus” di domenica scorsa, in onda su La7, l’economista Luigi Zingales, intervendo sulla questione degli sprechi di denaro pubblico, ha citato come esempio di “spesa inutile” per la collettività il contributo all’editoria che anche “L’Opinione” riceve.
Il professore della University of Chicago Booth School of Business non ha mancato di esprimere il suo giudizio morale sostenendo che: “Chi si dichiara liberale deve fare a meno dei sussidi pubblici e vivere del mercato”. Ha detto poi testualmente: “Se noi tagliamo il contributo a L’Opinione non penso che la gente scenda in piazza per protestare per un servizio che manca”. Il nostro direttore, che era tra gli ospiti del programma, ha risposto a tono all’aggressione subita. Le ragioni a cui si è appellato sono fondate. Arturo Diaconale ha ben chiarito che il sostegno pubblico all’editoria minore è questione di libertà giacché, in un sistema nel quale le principali testate sono in mano ai più forti gruppi industriali e finanziari del Paese, il mancato intervento dello Stato in favore delle piccole inizitive editoriali che non hanno uguali mezzi economici per competere alla pari sul mercato si tradurrebbe in un’occulta censura alla libertà di stampa, cosa peraltro espressamente sanzionata dal nostro ordinamento costituzionale.
Di nostro aggiungiamo soltanto che sarebbe un grave vulnus per la democrazia se la gente, come la chiama Zingales, non sentisse di protestare nel caso in cui venisse azzittita una voce della stampa libera e indipendente col pretesto della spending review.
In realtà, ci chiediamo se Zingales avesse l’adeguata legittimazione a pronunciarsi sulla questione. Egli distribuisce pillole di economia mescolate a massime morali, in nome dell’ortodossia liberista. Cosa legittima. Ci domandiamo, tuttavia, del perché l’autorevole accademico non abbia criticato, con altrettanta veemenza, i comportamenti di certo capitalismo nostrano il quale, per decenni, ha fatto strame di contributi e aiuti pubblici di ogni genere. Ha mai saputo, Zingales, dell’esistenza di una cosa che si chiamava Cassa per il Mezzogiorno? È solo nostra ignoranza se non abbiamo mai letto una riga nella quale l’economista denunciasse lo schifo del perverso condiziomento che la Fiat ha esercitato sullo Stato italiano per ottenerne vantaggi in tutti i modi possibili. Studiava ancora alle superiori Zingales quando l’Iri di Romano Prodi, alla faccia del mito del libero mercato e delle sovrane leggi della concorrenza, omaggiava i padroni del Lingotto del generoso cadeau dell’Alfa Romeo, scippandola dal piatto della trattativa con il colosso americano Ford?
L’autorevole studioso dispensa le sue perle di saggezza dalle pagine de “L’Espresso”. Sarà un caso che non si ricordino memorabili sue prese di posizione sul modo di fare capitalismo del maggiore azionista del gruppo, proprietario del periodico per il quale lui scrive? Perché non ha mai stigmatizzato lo scandaloso comportamento imprenditoriale di De Benedetti e delle sue indecenti pressioni per ottenere di essere salvato, non una volta, dalla mano pubblica? Proprio il signor Carlo De Benedetti, quello stesso di cui il mai abbastanza compianto presidente Cossiga era solito dire: “Quello pensa unicamente a privatizzare i profitti e a socializzare le perdite”.
Se li ricorda, professor Zingales, i registratori di cassa che i negozianti dovettero acquistare dalla sera alla mattina per salvare l’Olivetti dal fallimento a cui il suo editore l’aveva condotta? Forse lei era a Chicago quando in Italia la solita politica, serva dei più forti, approvava leggi che finanziavano, attraverso lo strumento dei crediti agevolati, la delocalizzazione delle imprese fuori del territorio nazionale, dando la stura alla fase di desertificazione industriale che ci ha portato all’odierno disastro? O forse questa è un’ altra faccia di quel turbo-capitalismo che va di moda nella sua Chicago? Vuole prendersela con L’Opinione? È libero di farlo. È un suo diritto. Ma, se vuole essere credibile, abbia il fegato di smascherare le ruberie vere di un capitalismo straccione di cui lei, magari involontariamente, si mostra alfiere. Ci faccia vedere di che pasta è fatto. Denunci gli intrallazzi di quelli che pagano le sue produzioni intellettuali. Vede, professore, il nostro tempo storico ha bisogno di essere illuminato dalla saggezza e dalla lungimiranza delle migliori menti. È tuttavia indispensabile che i contenuti di scienza siano accompagnati da altri requisiti, di natura etica, affinché quegli stessi contenuti divengano patrimonio di tutti. È per questo che uno scienziato, o un qualsiasi altro dotto, deve esercitare la virtù della coerenza perché la sua opera sia credibile.
Lo spazio che separa l’universo morale del “faro di luce per l’umanità” da quello, amorale, di un qualsiasi volgare cialtrone è così sottile che talvolta si ha difficoltà a scorgerne il confine.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:15