
Tutto si può dire di Silvio Berlusconi meno che non abbia fiuto. All’indomani della sconfitta elettorale, il capo di Forza Italia ha annusato l’aria e ha sentito che doveva immediatamente muovere un passo in direzione del riposizionamento strategico del partito.
Berlusconi, da imprenditore di successo, è abituato a leggere i risultati di un’attività dai numeri prodotti e non dalle chiacchiere dispensate con generosità. I numeri sono testardi. Si ostinano a raccontare la verità. E proprio i numeri dell’ultima tornata elettorale hanno fatto scattare un allarme che un leader accorto non avrebbe potuto ignorare. Quale? La resurrezione della Lega, data troppo rapidamente per spacciata, presso il suo tradizionale bacino elettorale e, allo stesso tempo, grazie al nuovo “slang” salviniano, la sua penetrazione in aree geografiche storicamente avverse. Cosa è accaduto? La Lega ha raccolto 43.184 voti nella circoscrizione meridionale e 22.540 in quella insulare, che uniti alle 122.219 preferenze conquistate al Centro, hanno contribuito a superare la soglia psicologica del 6%. Si dirà: è poca roba.
Tuttavia, le menti pensanti sanno bene che quei numeri rappresentano un “semaforo verde” per radicarsi su quegli stessi territori che hanno risposto positivamente ai messaggi lanciati. Berlusconi lo ha capito. E non può esserne contento perché, nel contempo, la lettura del risultato elettorale di Forza Italia restituisce un’immagine di un partito decisamente “meridionalizzato”. Sono state, infatti, le maggiori precentuali conseguite al Sud e nelle Isole a consentire di arginare il tracollo delle circoscrizioni del Nord. “Quindi, se il Sud è diventato per noi di Forza Italia “il ridotto di Valtellina” - si sarà detto Berlusconi - l’idea che si faccia strada un competitor che ci sottragga consensi, sostenendo programmi e obiettivi molto sentiti dall’opinione pubblica orientata a destra, è una minaccia da neutralizzare”. Come? Annullando la temibile concorrenza attraverso la ricostituzione del blocco di centrodestra, rinnovato nei contenuti e nella governance. Matteo Salvini non si è sottratto al tentativo di riavvicinamento. È perfettamente consapevole della necessità di avere dalla propria la nave ammiraglia di Forza Italia se vuole rendere concreta buona parte della sua offerta politica. Tuttavia, è improbabile che egli possa facilmente rinunciare al suo programma di sviluppo, come forse vorrebbe Berlusconi, senza ottenere in cambio alcuna solida contropartita, come, ad esempio, la promessa di contendibilità effettiva della guida della coalizione, a fianco dell’inamovibile padre-fondatore.
Due basilari ragioni determinano il segretario leghista a persistere nella odierna condotta. La prima, di alto profilo, è legata al tentativo svolto in chiave ideologica di slegare il concetto di identità nazionale da quello di Stato centralista, in vista della proposizione al Paese di un federalismo sostenibile. La seconda, più pragmatica, scaturisce dalla giusta diffidenza che il giovane leghista nutre verso la modifica della legge elettorale. Egli sa che, comunque vada, per quante garanzie possa egli ricevere, potrebbero essere introdotti sbarramenti e soglie d’accesso esiziali per la sopravvivenza del suo movimento. Per questa ragione, puntare alla quota di sicurezza conseguendo un esito elettorale superiore all’8%, sarebbe come stipulare una polizza sulla vita, a beneficio del partito. Ma per raggiungere un risultato del genere, il voto del Nord da solo non basta. Occorre un’estensione del consenso ad altre aree del Paese. Da qui l’esigenza di parlare con un linguaggio nuovo anche ai meridionali.
Prima, dunque, che ciascuno muova per proprio conto, ci si è incontrati. L’occasione è stata quella della partecipazione di Forza Italia alla raccolta di firme per alcuni dei referendum proposti dalla Lega. Un primo passo per ribadire che, una volta ricostituita una sostanziale coerenza programmatica, è possibile riportare alla luce una genuina politica di destra. Se è così, buon segno! Si riparte.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:21