
La tornata elettorale della scorsa domenica offre sufficienti spunti per avviare un ragionamento con i lettori. Cominciamo dal dato più importante: l’affluenza alle urne. I votanti sono stati il 58,61% dei 49.256.169 aventi diritto. Un dato positivo, se comparato al resto dei Paesi dell’Unione, invece preoccupante se posto a confronto con il dato storico della partecipazione al voto degli italiani. L’alta percentuale di astenuti ha rilievo perché, questa volta, la scadenza elettorale non sarebbe stata derubricata in appuntamento di routine. È bastato osservare il posizionamento dei partiti per comprendere che il consenso sarebbe stato giocato sulla suggestione di un doppio referendum; l’uno, esterno, sulle politiche dell’austerity dettate dai vertici di Bruxelles, l’altro, interno, sull’azione di Governo del nuovo Premier Matteo Renzi. Quindi, il fatto che una vasta porzione di elettori non si sia recata ai seggi non è interpretabile secondo lo schema della “fuga dalla realtà”. L’astensione va giudicata, per una sua ampia componente, quale una diversa modalità dichiarativa della volontà popolare. Chiediamoci, allora, a chi questo messaggio sia stato rivolto.
Certo non al nuovo Partito democratico di Renzi che, contro ogni previsione, con il 40,81% dei consensi ha ottenuto un risultato eccellente, di portata storica. È di tutta evidenza che la campagna elettorale, mirata a trasmettere ottimismo per il futuro della nostra società, grazie alla spregiudicatezza delle nuove leve “democratiche”, abbia fatto breccia nel cuore della sinistra moderata. Il blocco sociale di riferimento ha risposto compatto all’appello del suo leader. In numeri assoluti, infatti, il Pd ha superato quota 11 milioni di elettori. Tuttavia, nel successo di Renzi hanno inciso due fattori determinanti. Il primo, ha riguardato la campagna elettorale svolta da Beppe Grillo, molto forte nei toni e oscura nelle finalità. I moderati hanno avuto paura della deriva distruttiva verso cui il leader dei Cinque Stelle ha pensato di condurre il suo popolo. Il giustizialismo violento e sommario, promesso da Grillo durante i suoi comizi, contro la classe dominante del Paese, non ha catturato l’interesse di quanti, e in Italia non sono pochi, in fondo si trovano a proprio agio nella situazione attuale. Costoro hanno vissuto la crisi in modo non traumatico, sono passati indenni tra le difficoltà generali, salvando per intero le certezze e le connotazioni del loro status sociale originario. Essi, che protendono per la politica dei piccoli passi, dei graduali aggiustamenti, perché mai dovrebbero buttare tutto all’aria per seguire la retorica demagogica di un capobastone “cesarista”?
Il secondo fattore sul quale Matteo Renzi ha potuto contare ha riguardato la manifesta incapacità dei suoi alleati minori di governo di drenare consensi all’esterno del perimetro tradizionale della sinistra moderata. Cos’è avvenuto? Il Pd ha di fatto cannibalizzato la formazione centrista di Scelta Civica, al voto come “Scelta Europea”, la quale, dopo aver servito, due anni orsono, il disegno di sottrarre forza elettorale al centrodestra, oggi si è liquefatta ottenendo un imbarazzante 0,71%. Questo risultato cancella le “anime belle” della politica montiana, e lo stesso Mario Monti, dal panorama politico. Inoltre, c’è stato il fallimento del progetto del Nuovo Centrodestra. Sebbene abbia superato di un pelo la soglia di sbarramento prevista, ottenendo uno striminzito 4,38 %, la sconfitta per i suoi dirigenti è pesantissima. Si consideri che, in questo turno elettorale, il Nuovo Centrodestra si presentava insieme all’Udc. Ora, è noto che il “partitino” di Casini abbia conservato un suo zoccolo duro di preferenze, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia. L’ultimo dato utile, quello delle Politiche dello scorso anno, assegnava all’Udc un consenso pari all’ 1,78%, con un’affluenza al 75,19%. In numeri assoluti, 608.199 voti. Quindi, facendo le debite proprozioni, sarebbe corretto asserire che di quel 4,38% ottenuto la scorsa domenica, almeno un 2% è ascrivibile alle truppe fedeli a Casini, Cesa e Buttiglione. Ergo, l’exploit della pattuglia ex berlusconiana che è composta di oltre 61 parlamentari, 7 europarlamentari e 85 consiglieri regionali, che ha goduto della presenza al Governo di tre suoi esponenti in altrettanti dicasteri di peso, oltre a un certo numero di sottosegretari, che ha avuto dalla sua il potente apparato di potere di “Comunione e Liberazione”, nelle urne ha registrato 1.199.073 voti. Sottraendo quelli portati in dote dall’Udc, al “vecchio che avanza” degli Alfano, dei Cicchitto e dei Formigoni, è di fatto toccato lo stesso risultato che fu di Gianfranco Fini e di Futuro e Libertà.
A fronte del mancato successo di Fratelli d’Italia (3,66%) che si consolida come un movimento “di nicchia” della destra preberlusconiana, c’è stata invece la netta vittoria della Lega Nord di Matteo Salvini. Bisogna dare atto al giovane leader di aver avuto, dalla sua, la forza delle idee. È stato forse l’unico ad aver detto chiaramente quali fosse la proposta politica del suo partito. Ha declinato con coraggio parole d’ordine anche difficili da pronunciare come quel “basta Euro” che nessun altro contendente, neanche il demagogo Grillo, ha osato prospettare al proprio elettorato. Salvini ha parlato al corpo vivo della nostra società che soffre e che non riesce più a credere nel futuro. Si è intestato un’“obbligazione di mezzi”: andare a Bruxelles per battersi contro l’arroganza delle burocrazie europee, lontane sideralmente dai popoli sui quali vorrebbero indebitamente regnare. Salvini, con il 6,16%, può guardare con maggiore tranquillità al futuro. Ci sarà da scommettere che intenderà proseguire in quella strategia di penetrazione delle altre aree del Paese che hanno già cominciato ad emettere segnali incoraggianti. Il dato circoscrizionale disaggregato racconta di un 2,14% al centro, dello 0,99 % nelle isole e di una scommessa da giocare al sud, partendo da quota 0,75%.
Grillo, nella foga elettorale, aveva alzato l’asticella del consenso per il suo partito, dandolo per sicuro vincitore con un voto in più del Pd. Ora che la distanza è, a suo danno, di quasi 20 punti percentuali, egli appare come il grande sconfitto. In realtà non è così. Sebbene l’avanzata del suo movimento sia stata fermata, il 21,16% dei consensi ottenuti ne consolida la presenza tra le forse politiche maggiori, costituendo allo stesso tempo una base di partenza dalla quale costruire, in futuro, ultriore consenso. Se qualcuno ha pensato che Grillo fosse una meteora sulla scena politica, deve ricredersi. Piaccia o no, oggi il movimento “5 Stelle” rappresenta una realtà con la quale tutti devono fare i conti. Una realtà affatto diversa da quell’aggregato di pulviscolo particellare che è la sinistra radicale alla quale va comunque riconosciuto il merito di aver superato la soglia di sbarramento, tenendo duro fino in fondo senza lasciarsi prendere dalla tentazione di litigare al proprio interno, come solitamente avviene nella tradizione dei gruppi comunisti.
Chi purtoppo si conferma essere il grande sconfitto di queste elezioni è Forza Italia. Il risultato è stato disastroso. Ciò che preoccupa più della percentuale raggiunta, il 16,82, sono i numeri assoluti. Hanno dato la preferenza 4.605.331 persone. Se si confronta il dato con le elezioni dello scorso anno, si rileva che, anche sottraendo quelle poche centinaia di migliaia di voti portate via dal Nuovo centro-destra, il partito di Berlusconi ha perso ulteriori 2 milioni di propri elettori. Il confronto con le ultime europee del 2009 è drammatico. I consensi allora furono per il PdL 10.807.327. Si dirà: in cinque anni è accaduto di tutto. Vero. Ma la scomparsa di circa il 58% della platea elttorale del 2009 deve porre interrogativi concreti. Vanno svolte analisi convincenti. Non è, da questo punto di vista, serio che si attribuisca alle difficoltà di presenza di Berlusconi in campagna elettorale la responsabilità del tracollo. Al contrario. Il fatto che il presidente Berlusconi sia apparso agli occhi degli italiani in tutta la sua debolezza di perseguitato dalla Giustizia, forse ha attratto qualche simpatia che altrimenti non vi sarebbe stata. La verità è che Forza Italia ha smarrito il suo elettorato. Avendo smesso di ascoltarne la voce, oggi non sa riconoscerlo. Tuttavia, ciò che lascia aperta la porta alla speranza è che quell’elettorato in uscita dalla destra berlusconiana non si sia, per la sua gran parte, ricollocato altrove. Non l’ha catturato Renzi e men che meno lo hanno intercettato le appendici gemmate dal Popolo della Libertà. Quel blocco sociale, un tempo riconosciutosi in Forza Italia, è per massima parte collocato nell’area dell’astensione. Non ha risposto alla chiamata. Non poteva. I leader di Forza Italia si sono ostinati a invocare l’unità dei moderati senza considerare che la grande massa di colpiti dalla crisi, annientati dalle politiche d’austerity imposte all’Europa dalla Germania, non è più classificabile come forza moderata. Per essa è necessario che si elaborino nuove categorie che la possano ricomprendere. Ecco ciò che spetta di fare alla nuova Forza Italia se vuole sperare nella risalita. Sarebbe, invece, un grave errore limitarsi a cercare intese verticistiche con i fuoriusciti del centrodestra. Un’ acritica sommatoria tra posizioni, altrimenti inconciliabili, non sarebbe compresa dagli elettori. Al contrario, si rischierebbe un’altra dura sanzione elettorale. Se sparisse ora il centrodestra, potrebbero volerci anni prima di vedere sorgere una realtà nella quale possa adeguatamente riconoscersi la destra liberale italiana. Nel frattempo che facciamo, diamo retta a Sandro Bondi, dichiariamo fallita Forza Italia e, in nome dell’unità dei moderati, ci teniamo Renzi per i prossimi venti anni?
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:14