
Di recente Berlusconi ha paragonato Beppe Grillo a un novello Hitler, sostenendo di aver letto i discorsi della campagna elettorale del capo del partito nazista (1933) e di averli trovati per molti aspetti simili, nei contenuti, ai comizi del comico genovese. Allora Grillo è come Hitler?
Nessun personaggio di rilievo storico è in tutto uguale a un altro. La contestualizzazione delle cause che generano fenomeni incidenti sui destini dell’umanità, conduce a escluderne meccanicistiche ripetizioni. Quindi, la risposta più agevole dovrebbe essere negativa. Grillo non è un nuovo Hitler, giacché di Hitler ve n’è stato uno soltanto. Tuttavia, messa così, la risposta rischia di non cogliere il senso sottile della provocazione berlusconiana. Quindi, proviamo a chiarire. Come non lo fu Hitler, anche Grillo non può essere semplicisticamente liquidato alla stregua di un “incidente della Storia”. Entrambi sono conseguenze di fattori congiunturali dei tempi. In realtà, sono i nessi causali, che legano catene di eventi, a produrre assonanze nel linguaggio diacronico della civiltà occidentale.
Cominciamo con il precisare che il fenomeno Grillo non debba essere considerato “populista” perché, nella categoria concettuale della politica, il suo movimento è altra cosa. Non si scorge, nel messaggio veicolato da Grillo, la consapevolezza di un ruolo del “popolo” come soggetto rivoluzionario autonomo. “La gente” a cui pensa Grillo non sarebbe in grado di condurre l’azione politica in “prima persona”. Alla massa, quindi, necessita una “testa pensante” da interporre, con ogni mezzo, alle mosse strategiche della controparte. Sono le avanguardie della rappresentanza, lo strumento a cui Grillo non rinuncia per scardinare “dall’interno” l’attuale sistema di potere. Ad esse affida il ruolo pedagogico di incanalamento e di mediazione comunicativa della protesta popolare. La “naturale” guida all’apprendimento di una dottrina che discende dall’empireo del movimento politico, in parte occultato nell’oscuro mondo virtuale della rete, è invece segno distintivo del carisma riconosciuto al leader.
Se non populista, dunque, il Movimento 5 Stelle mostra una natura propriamente “cesarista”, nel senso gramsciano della definizione, di formula polemico-ideologica. In effetti, vent’anni di scontro non hanno consentito che il sistema politico italiano potesse essere ricondotto a sintesi attraverso lo sviluppo di un processo dialettico naturale tra berlusconismo e antibelusconismo. La negazione di questa necessità per la sopravvivenza dell’ordine democratico ha segnato la deriva “catastrofica” della società. A un certo punto, la contrapposizione ontologica tra l’esercito del Bene della sinistra giustizialista e le forze del Male, incarnate dalla persona Berlusconi, ha irrimediabilmente varcato i confini delle categorie “del politico”. Il sovrapporsi, poi, della crisi economica ha collassato la struttura duale della politica italiana. Per effetto di una sincope non rivoluzionaria ma ribellistica, il sistema ha generato per partenogenesi una terza forza “post-alluvionale”, il movimento grillino, che mira a soppiantare i primi “due mondi” assoggettando al suo potere ciò che resta dell’era pre-alluvionale della Seconda Repubblica.
Per stare alla classificazione proposta da Antonio Gramsci, quello di Grillo sarebbe un cesarismo di tipo regressivo. Il tratto della sua “terza forza” è chiaramente autoritario. Ne è prova lo scopo che essa si prefigge che può ben essere rappresentato dall’allegoria del “capo” che circonda il palazzo della politica e intima a coloro che lo occupano di uscire fuori e di arrendersi, consegnandosi alla “giustizia” del popolo. L’intento del leader non è quello di creare ideali, piuttosto è di guidare il popolo a stare nel nuovo orizzonte, in un “altrove” già delineato. Grillo si propone di condurre gli italiani in “nuovo mondo” senza dire dove si trovi questo paradiso e per quali strade ci si arrivi. “Non preoccupatevi, non fatevi troppe domande, a voi penso io, fidatevi di me”, sembra dire Grillo, emulando il capo del nazismo tedesco. È, dunque, nel ricorso a questa particolare presunzione che è possibile sovrapporre i contorni autoritari di personaggi i quali, sebbene incomparabili dal punto di vista del giudizio storico, mostrano indubbie similitudini. “La virtù di creare ideali è completamente diversa da quella di comandare. È stupido cercare di determinare se sia più importante creare fini per il popolo oppure concretizzarli. Ognuna di queste cose non avrebbe significato senza l’altra. Il più virtuoso ideale perde il suo valore se un capo non convinca il popolo a quello”. Sono parole che avrebbe potuto pronunciare tranquillamente Grillo per spiegare il suo approccio di metodo alla comunicazione politica. Nessuno si sarebbe scandalizzato per questo. Il fatto è che queste parole sono l’asse portante di un pensiero sviluppato da Adolf Hitler nella sua opera letteraria fondamentale: il “Mein Kampf”.
Quello che colpisce del messaggio grillino è la sostanziale assenza, nella comunicazione, del contenuto dell’offerta politica. Non perché esso non vi sia. Tutt’altro. È perché, semplicemente, il leader pentastellato vuole tenere le “carte coperte”. Egli, al momento, valuta superfluo esporlo. La priorità, nella logica grillina, si posiziona interamente sulla fase strategica della conquista del potere. Il movimento mostra di non aver bisogno di rappresentare le motivazioni di contesto per spiegare all’elettorato la sua natura totalmente anti-sistema. Quando Grillo ripete a cantilena che non si fanno accordi con gli altri ma li si manda tutti a casa dopo averli processati, conferma l’idea di rottura autoritaria dell’esistente, conseguibile senza passare per la fase rivoluzionaria dell’occupazione “manu militari” della casematte del potere, di gramsciana memoria. Per un sorta di paradosso concettuale, l’egemonia verrebbe consegnata al movimento da un atto che appartiene alla natura negoziale della forma democratica, qual è il conferimento della rappresentanza mediante verifica elettorale.
Allo stesso modo di come avvenne nella Germania della Repubblica di Weimar nelle elezioni politiche del 5 marzo 1933. In quella circostanza il Partito Nazionalsocialista di Hitler raccolse il 43,9% dei voti validi. Fu grazie all’appoggio del Partito Popolare Tedesco-Nazionale, alleato di governo e alla confluenza dei voti dei 74 eletti con il Centro Cattolico “Zentrum”, che il Furher riuscì ad avere la maggioranza parlamentare dei due terzi, necessaria per approvare il disegno di legge che gli conferiva i pieni poteri.
Nella richiesta al capo dello Stato di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni per il Parlamento nazionale si concentra l’idea-prassi del “18 Brumaio” grillino: ottenere la maggioranza dei consensi. Dopo, nominare un altro Presidente della Repubblica organico al nuovo corso politico e approvare una legge che conferisca pieni poteri alla figura “eroica” del Capo. Basterebbero queste poche mosse per archiviare l’esperienza democratica nel nostro Paese, senza che per le strade si spari un solo colpo di schioppo.
Se è vero che il cesarismo tradizionale si è avvalso, in passato, anche di azioni militari che ne favorissero l’avvento, nel nostro tempo storico altri “poteri” dello Stato lavorano a produrre le condizioni ideali per l’inverarsi della sincope del sistema. È il caso dell’azione della magistratura la quale, nelle ore che precedono la conclusione della campagna eletttorale, è impegnata a colpire, tramite i propri provvedimenti, una parte significativa di quella che potrebbe essere definita, non già classe dirigente, ma “classe dominante”.
Gramsci, nella sua analisi, individua, a proposito della Francia di fine Ottocento, nel movimento creatosi intorno all’affare Dreyfus, l’antidoto per contrastare l’affermazione di forme autoritarie di “cesarismo”. Per un ricorso della Storia, oggi il movimento intitolato a Dreyfus è tornato a vivere. Che sia questo, ancora una volta, il mezzo di contrasto più efficace per arrestare la marcia trionfale di un altro “uomo della Provvidenza”?
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:17