La polpetta avvelenata di Timothy Geithner

“Timeo Danaos et dona ferentes” (“temo i Greci anche quando portano doni”). È questo ciò che avrebbe dovuto dirsi Silvio Berlusconi leggendo dell’improvviso regalo della rivelazione fatta al mondo da Timothy Geithner, segretario al Tesoro, fino al 2013, dell’amministrazione Obama.

L’occasione per confezionare il gentile cadeau è stata la pubblicazione di un libro di memorie, “Stress Test”, nel quale Geithner racconta da protagonista le fasi più drammatiche della crisi finanziaria che ha messo in ginocchio il mondo. Nella ricostruzione si parla del Governo Berlusconi e del tentativo, ordito da alcuni esponenti europei, di coinvolgere l’amministrazione Obama nella defenestrazione del leader italiano. In 12 righe Geithner colpisce e affonda la corazzata franco-tedesca con un siluro lanciato dritto alla pancia del bersaglio battente bandiera dell’Unione Europea.

I fatti risalgono al periodo, arcinoto, del novembre 2011. C’era già stata l’estate dello spread, che aveva mandato in tilt il Governo Berlusconi. C’era stata la lettera della Bce che definiva le condizioni per riformulare il piano di bilancio della finanza pubblica italiana. In realtà, condizioni durissime, che facevano somigliare l’intervento delle autorità di Bruxelles e di Francoforte più alle clausole di una capitolazione imposte a un Paese sconfitto, che non a un programma di sostegno a uno Stato membro in temporanea difficoltà. C’erano state anche le risatine della coppia Sarkozy-Merkel rivolte all’indirizzo di Berlusconi. Ed era in corso il vertice del G20 a Cannes. Il famoso vertice, dei primi di novembre, che i media italiani hanno tanto enfatizzato defininendolo il luogo fisico dell’umiliazione e dell’isolamento per l’odiato leader italiano. È in questo clima mefitico che Geithner lancia il sasso: “A un certo punto in quell’autunno, alcuni funzionari europei ci hanno approcciato con un complotto per provare a fare cadere il Governo dell’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Volevano che rifiutassimo di appoggiare i prestiti del Fondo monetario internazionale all’Italia fino a quando lui (Berlusconi, ndr) non se ne fosse andato”. Clamoroso! Il referente della politica economica americana, all’epoca dei fatti, dichiara con la massima disinvoltura che era in atto una trama per sovvertire un Governo alleato degli Stati Uniti, legittimamente eletto dai cittadini di uno Stato sovrano. Peccato, però, che il loquace memorialista abbia omesso i nomi dei soggetti che l’avrebbero avvicinato. È vero che li fa apparire in controluce, li rende riconoscibili agli occhi di chi vuol vedere. Ma si ferma lì. Soltanto, aggiunge un’affermazione colorita per marcare una presunta presa di distanze del leader di Washington da una simile macchinazione. Dice Geithner che avrebbe sconsigliato ad Obama ogni coinvolgimento americano nell’operazione, perché “non avrebbero potuto tenere il suo sangue (di Berlusconi) sulle loro mani”. Che anime sensibili!

Ora, sebbene faccia gioco conoscere con diversa precisione alcuni particolari di una questione di cui si aveva già da tempo ampia contezza, vi è da osservare che la rivelazione suscita più interrogativi di quanti ne risolva. In primo luogo viene da chiedersi: perché solo adesso Geithner ritrova la favella e spiffera tutto? Perché il potente governo di Washington non ha allertato tempestivamente l’alleato italiano? Perché Geithner dà per scontato che la partecipazione al complotto dell’amministrazione Obama avrebbe dovuto riguardare un’ipotetico blocco dell’intervento del Fondo Monetario Internazionale sul debito pubblico italiano, quando ancora, e non lo sarà neanche in seguito, l’Italia non ne aveva chiesto l’intervento? Al contrario, sia Berlusconi che l’allora ministro dell’Economia, Tremonti, lo avevano totalmente escluso.

In realtà, le confessioni tardive sanno sempre di tappo. E non pensiamo che questa faccia eccezione. Come non pensiamo che essa sia caduta “casualmente” nel pieno della campagna elettorale che definirà i futuri assetti dell’istituzione parlamentare europea. Fedeli agli insegnamenti degli antichi maestri, pensiamo che tutto possa accadere in politica tranne la casualità degli accadimenti medesimi. È un caso se Alan Friedman, il super introdotto giornalista americano nei salotti buoni di questa e dell’altra sponda dell’Oceano Atlantico, abbia ricostruito l’estate del 2011 attribuendo al nostro capo dello Stato un attivismo quantomeno inappropriato per giungere alla rimozione di Berlusconi dalla guida del Governo? È un caso che oggi Geithner completi il quadro? Se non vogliamo credere a Babbo Natale e alla presenza degli alieni sulla terra, dobbiamo porci un’altra domanda: Cui prodest? A chi giova questo improvviso ritorno di memoria?

La verità, a nostro modesto avviso, è che si tratti della classica polpetta avvelenata, servita dall’amministrazione americana al tavolo dei rissosi contendenti europei. La verità è che Obama non ha alcun simpatia per Berlusconi e lo ha dimostrato in molte occasioni. Se ora gli serve un assist è perché ha fatto i suoi conti. La verità è che il “simpaticone di Washington” ha buttato in terra una fava pensando di cogliere due piccioni. Chi? Quali paffuti pennuti pensava di cucinarsi? Proviamo a dare una risposta.

Obama ha un disperato bisogno di sostenere la spinta dell’economia del suo Paese. Per farlo è necessario che l’Europa sia collaborativa, che torni a spendere. Soprattutto che faccia circolare più denaro. Su questo fronte il presidente Usa ha trovato non un ostacolo, ma un macigno nella ferma opposizione della Merkel che di allargare i cordoni della borsa non intende sentire parlare. Allora che si fa? Le si lancia un avvvertimento, il primo, più leggero, attraverso il pamphlet di Alan Friedman, che serve a introdurre l’argomento. La Merkel fa orecchie da mercante. Scatta allora la “fase due”: usare Berlusconi, e la vicenda della caduta del suo governo, come una clava contro la cancelliera. Si arma il siluro: chiamarla pesantemente in causa per un complotto posto in essere ai danni del leader di un Paese amico. Dopo il botto di queste ore, c’è da scommettere che, all’indomani del 25 maggio, nulla sarà più come prima. Anche Angela Merkel sembrerà un’altra persona. Apparirà disponibile e dialogante. La folgorazione che l’ha colpita sulla via di Arcore avrà fatto il miracolo. Non importa se con la spintarella del loquace Geithner e dell’ordigno scoppiatogli tra le gambe. Voilà! Il piccione in umido alla brandemburghese è servito. Secondo volatile: il presidente Berlusconi in persona. Obama, che poco e male mastica di politica estera, una cosa l’ha capita. Dopo aver conosciuto Matteo Renzi, con il suo allegro codazzo di dilettanti allo sbaraglio (Mogherini docet), si è reso conto che il “Fonzie” di Ponte Vecchio, da solo, non regge. Politicamente è inconsistente. Per questo, dando ascolto ai rumors dei suoi osservatori sul campo, ha fiutato l’aria e ha percepito un possibile ritorno di Berlusconi nella cabina di comando della politica italiana. Non direttamente, magari da “padre nobile”. Comunque, ci sarebbe. Se l’odiato italiano, portando il suo partito a contare in una nuova coalizione di Governo, dovesse ritornare in gioco, si sarà detto l’astuto ideatore della “Primavera Araba”, l’America rischierebbe di trovarsi nel bel mezzo della crisi ucraina con un amico di Putin, per di più incazzato per il trattamento riservatogli in passato, con cui fare i conti. Berlusconi, infatti, potrebbe spostare il baricentro della politica estera italiana in senso maggiormente filorusso. Se ciò accadesse, per Obama sarebbe il disastro. L’ennesimo. Allora, l’ideona: serviamogli un asso, in segno di amicizia, nella speranza che una volta rimontato in sella, il past-Cavaliere, non faccia scherzi. D’altro canto, Obama di là dalle chiacchiere delle servette ciarliere dell’informazione italiana, sa perfettamente che la statura personale di Berlusconi sul piano della politica estera è tale che di Renzi e della Mogherini ne farebbe un solo boccone.

Morale della favola: se fossimo nei panni del vecchio leone di Arcore, prima di mandare giù la polpetta servita dal falso amico, ci penseremmo due volte. L’annuseremmo, ne masticheremmo una piccolissima dose per cogliere il sapore amaro della stricnina con cui è stata impastata. La rimetteremmo nella sua pretenziosa confezione e la spediremmo, alla maniera degli scherzi del conte Raffaello Mascetti di “Amici miei”, all’indirizzo di Piazza del Quirinale. Sul pacchetto, in bella evidenza, la scritta: “Al caro Giorgio, il fedele amico Barack”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:15