“Lista Tsipras”: fantasma della politica

Uno spettro si aggira sulla campagna elettorale delle elezioni europee: è la sinistra radicale e comunista. Colpisce che in una fase di scontro aperto tra le forze politiche scese in campo per contendersi il voto, non faccia granché rumore la lista unitaria della sinistra “Tsipras”. Molte possono essere le cause di questo silenzio. Certamente dal punto di vista della comunicazione non aiuta la scelta del nome per la corsa elettorale. Lo diciamo col massimo rispetto per il suo fondatore e leader, il greco Alexis Tsipras, capo nel suo Paese, la Grecia, del partito di sinistra radicale Syriza. Tuttavia, pensiamo che la negatività del messaggio stia nel comportamento delle numerose microformazioni collocate alla sinistra del Partito Democratico. Esse colpevolmente non hanno costruito alcunché di unitario. Il ricorso nominale a un leader estero accentua, e non diminuisce, l’oggettiva responsabilità degli attori italiani nel non aver attivato una sintesi che consentisse loro di fare massa critica.

In effetti, fa specie sentire i vari capi formazione scambiarsi l’accusa di essere affetti da sindromi autarchiche. In realtà, gli ideologi del “comunismo all’amatriciana” hanno sempre peccato del vizietto di considerarsi “l’alfa e l’omega” del pensiero politico, soprattutto si sono atteggiati a detentori di verità anche quando intorno a loro tutte le certezze crollovano e crollava un mondo, quello comunista. È accaduto che una parte di questo “piccolo mondo antico” tentasse invano di porsi alla testa di un grande movimento avanzato, pensando di sfruttare, da una parte, i numeri del maggiore partito d’area, il Pd, dall’altra puntando all’efficacia della comunicazione mediatica mediante il ricorso a volti telegenici, per scalare con l’audience la leadership dell’alleanza. Da questo punto di vista il meccanismo di scelta del capo della coalizione attraverso il sistema delle Primarie, di derivazione anglosassone, si sarebbe prestato perfettamente al progetto. In concreto, è quello che ha tentato Nichi Vendola con il suo metodo affabulatorio, senza riuscirvi: prendere il comando intercettando il voto d’opinione, che non è per sua natura un voto strutturato. Per paradosso della sorte, ciò che non è riuscito a Vendola è invece riuscito sulla sponda opposta del riformismo blairiano all’affabulatore Matteo Renzi.

Ai partiti a vocazione proletaria ha nuociuto l’abbraccio mortale con un certa borghesia giustizialista e bigotta, dal punto di vista della morale. L’alleanza ingaggiata con le diverse formule movimentiste: viola, arancione, verde, arcobaleno e via discorrendo, fino alla fallimentare esperienza della candidatura del pubblico ministero Antonio Ingroia, ha deviato il dibattito, dalla canalizzazione della lotta di classe per la contrapposizione al potere capitalistico, in direzione dell’odio viscerale, umorale declinato “ad personam”, verso un solo uomo, assurto a simbolo archetipico di un sistema contrastato nelle sue finalità, svillaneggiato nelle sue manifestazioni, ma non negato nell’utilizzo delle sue produzioni o nello sfruttamento della sua immagine.

Quante volte è emersa la subalternità dei piccoli leader del comunismo nostrano al miraggio del successo, perseguito a traino di trasmissioni popolari come quelle organizzate dalla premiata ditta “Santoro & Travaglio”, o di riviste di tendenza quale l’organo del giustizialismo militante, “Micromega”. Quante volte quegli stessi leader si sono prestati a recitare, non sappiamo quanto inconsapevolmente, la parte degli “utili idioti” a beneficio delle manovre speculative e di potere del circolo del capitalismo finanziario nostrano a danno di qualche altro ad esso contrapposto.

Fattore critico è stato, inoltre, la mancanza di aggiornati codici interpretativi nell’individuazione delle nuove povertà, ai tempi della parcellizzazione del lavoro. La sinistra massimalista ha tradizionalmente avuto dimestichezza con un lessico familiare nel quale campeggiavano le tematiche sulla fame nel mondo e sull’ideale “romantico” del riscatto delle masse lavoratrici, giudicate soccombenti, nei rapporti di produzione, rispetto alla controparte capitalistica. Per questa ragione essa si è trovata completamente spiazzata quando ha dovuto prendere atto del crescere di un altro fenomeno: la proletarizzazione dei professionisti. Verso questi nuovi poveri, che non sono analizzabili mediante le categorie concettuali proprie del lavoro salariato, la sinistra ha mancato di corrispondere alla domanda di rappresentanza politica che pure emergeva chiaramente dai nuovi profili di lavoro intellettuale.

In realtà, questa responsabilità la sinistra massimalista la divide con il sindacato che, a tutt’oggi, è totalmente inerte e impreparato a sostenere le ragioni di una categoria sociale emergente. Ma la sinistra massimalista ha cumulato un altro ritardo che oggi inevitabilmente sconta: obnubilata dall’ossessione della lotta per contrastare la contrazione capitalistica della proprietà, non ha colto per tempo la definitiva differenziazione di portata “ontologica” tra interessi degli oligopoli a carattere multinazionale e la perimetrazione localistica delle piccole e medie imprese. L’applicazione “ideologica” della rigidità al mercato del lavoro anche per le microimprese è prova dell’incapacità strutturale di questa sinistra massimalista a stare in linea con l’evolversi dei fattori della produzione.

Altro elemento da considerare è la mancata saldatura tra forza sindacale di sinistra e rappresentanza politica massimalista. Per quanto i minuscoli movimenti estremisti abbiano focalizzato la loro “mission” sulla centralità della questione operaia, anche nel tempo storico della globalizzazione, la Cgil, le cui fila si sono svuotate di proletariato lavoratore e si sono infoltite di impiegati pubblici e pensionati, non ha inteso recidere l’antico legame con il ceppo principale del comunismo italiano, oggi innestato nel nuovo ibrido, il Partito Democratico. Non è un caso che i leader, conclusa l’esperienza di vertice nel maggiore sindacato italiano, vengano messi a dimora nel gruppo parlamentare del Pd. È accaduto a Cofferati, è accaduto a Cesare Damiano e a Guglielmo Epifani. È presumibile che accadrà a Susanna Camusso, quando sarà il suo turno. Solo alle ultime consultazioni è approdato nelle liste di Sel, da indipendente, un rappresentante sindacale di prima fila proveniente dai metalmeccanici della Fiom. È Giorgio Airaudo.

L’anomalia della sinistra massimalista italiana sta nel fatto che essa, a differenza di tutte le altre espressioni partitiche, risulti sconfitta due volte: una volta dalla congiuntura economico-sociale del presente, che ha determinato la liquefazione del blocco storico di riferimento in sostituzione del quale non è stata trovata un’alternativa quantitativamente significativa; un’altra volta dalla storia che ha posto le avanguardie intellettuali del Movimento Operaio dell’Occidente sviluppato di fronte al fallimento definitivo della prassi del socialismo realizzato. I grandi capi del comunismo italiano, a cominciare da Palmiro Togliatti hanno mentito a loro stessi, prima che alle classi lavoratrici del nostro Paese, nell’ostinarsi a cercare una qualche forma di corrispondenza tra le aspirazioni connesse alle grandi linee di emancipazione del proletariato delineate dal “Manifesto del Partito Comunista” di Karl Marx e Friedrich Engels, del 1848 e “l’imperialismo” sovietico e cinese del secondo Novecento.

Cosicché agli attuali comunisti, oltre al rischio della sindrome da reducismo, è restata appiccicata addosso la contraddizione di continuare a promuovere la spinta rivoluzionaria pur non avendo modelli reali a cui agganciarsi se non sparute realtà, residuate dai tempi della “guerra fredda”, tiranneggiate da personaggi impresentabili, come la Corea del Nord. A questo punto non resta che incollare sulla foto ingiallita della falce e martello il bellissimo fondoschiena di una giovane ragazza. Non sarà il sole dell’avvenire, ma almeno attizza la speranza per qualcosa di vivo.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:16